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martedì 15 gennaio 2008

La lunga marcia dei libertari di Ron Paul


Anche se occupano una posizione importante nel panorama intellettuale (nelle università e, ancor più, nel mondo dei think-tank), da tempo i libertari americani appaiono ai margini della politica. Nel 1971 avevano dato vita al partito libertario, che tuttora si presenta alle elezioni (sebbene senza ottenere risultati significativi), ma oggi la maggior parte di loro non guarda al Libertarian Party come ad un partito che possa modificare la realtà delle cose. Negli anni Ottanta taluni avevano creduto nel reaganismo e nella possibilità di modificare la politica americana dall’interno, ma anche quella stagione – fatta di luci ed ombre – è ormai lontana. La totale marginalizzazione dei libertari potrebbe però concludersi. Da qualche mese, infatti, molti di quanti auspicano una massiccia cura dimagrante dello Stato ritengono di aver trovato nel repubblicano Ron Paul il loro uomo. Texano, eletto tre volte al Congresso e già candidato per il Libertarian Party nel 1988, questo ginecologo mite e tranquillo è divenuto piuttosto noto con il nomignolo di “Dr. No”, in ragione della sua costante opposizione a ogni legge di spesa e ad ogni invio di truppe.

Giunto all’età di 72 anni, Paul ha deciso di candidarsi – da repubblicano – più per risvegliare le coscienze che nella convinzione di poter vincere. La speranza di un ottenere un risultato clamoroso, però, è venuta emergendo man mano: vedendo i numerosi
militanti che si avvicinavano a lui, osservando la sua preminenza assoluta in Internet, constatando come le iniziative volte a raccogliere finanziamenti siano andavano oltre ogni più rosea aspettativa. Il suo programma rappresenta la sintesi delle battaglie libertarie di sempre, ed è al tempo stesso tanto coerente quanto difficile da calare negli schemi europei. L’avversione verso le tasse e verso l’interventismo economico (Paul vuole abolire l’imposta sul reddito e la Banca centrale) si unisce ad un rigoroso non-interventismo in politica estera. Il risultato è che egli propone il ritiro immediato dei soldati americani all’estero, la privatizzazione del welfare, la liberalizzazione della droga, un rigido controllo delle frontiere con il Messico, un’ampia restituzione di competenze da Washington agli stati federati (anche in una materia come quella dell’aborto, che lo vede – da ginecologo – dalla parte dei diritti del nascituro).

Fino ad ora i risultati delle primarie sono stati in parte sorprendenti e in parte sconfortanti. Chi un anno fa avesse pronosticato un Paul al 10% in Iowa e all’8% nel New Hampshire sarebbe stato preso per un sognatore. È però egualmente vero che nel corso delle ultime settimane i sondaggi davano indicazioni assai positive a questo candidato che nei primi neppure compariva, che era ostacolato dal proprio partito e che, soprattutto, è assai inviso all’establishment mediatico e finanziario. Quasi inesistente sulle televisioni maggiori, difficilmente egli avrebbe potuto ottenere di più. In tal senso è significativo come la rete televisiva più schierata con i repubblicani, la Fox, abbia escluso proprio Ron Paul – e solo lui! – dal confronto tenutosi prima del voto in New Hampshire. Il motivo addotto è stata la mancanza di spazio negli studi, ma in realtà la rete non ha voluto aiutare questo repubblicano anomalo: fieramente avverso alla presenza americana in Iraq e quindi in rotta di collisione con la linea guerrafondaia dell’emittente.

È bene però che Paul e i suoi paulistas (nominativo nato come denigrativo, ma poi adottato dagli stessi supporter) sappiano ora esaminare con freddezza la situazione. A dispetto di un paio di primarie parzialmente deludenti, oggi Paul vale grosso modo quanto Rudy Giuliani, che pure partiva molto avvantaggiato, e soprattutto ha dalla sua il fascino della novità. Al riguardo, è interessante come a seguito della discriminazione della Fox il candidato libertario sia stato ospite del popolarissimo “The Tonight Show” di Jay Leno, sulla ABC. Per giunta, la candidatura di Paul suscita interesse ormai in ogni direzione, se si considera che i siti e le riviste dell’estrema sinistra americana sono ormai ricchi di discussioni su di lui e molti esprimono apertamente l’idea di sostenerlo per le sue posizioni in politica estera. Lo stesso “Manifesto”, in Italia, gli ha dedicato ieri un articolo non privo di apprezzamenti. Oltre a ciò, a questo punto i soldi non gli mancano. Quello dei 20 milioni di dollari raggranellati è infatti un capitolo tutto particolare, perché tale somma (costruita con donazioni intorno ai 100 dollari) è ciò che più di ogni altra cosa tiene in corsa il texano.

Dato che i mezzi ci sono e la volontà di diffondere il “Gospel” della libertà pure, tanto vale ignorare la (relativa) delusione del New Hampshire e continuare la marcia verso il super-martedì di febbraio. Qualcuno ipotizza pure che Paul punterà a un accordo con il partito libertario o proverà a dar vita ad un nuovo “terzo partito”: schierato a difesa dei principi costituzionali. È però possibile che egli intenda giocare fino in fondo la carta repubblicana. Come candidato del GOP (seppure anomalo) ha raccolto quei soldi e ottenuto visibilità: ed egli sa che restando tra i repubblicani può aiutare parecchi suoi giovani sostenitori affinché siano eletti nelle rappresentanze locali e, magari, perfino nel Congresso. A quel punto, la vera battaglia consisterebbe nel far rinascere una vocazione libertaria al partito che fu di Lincoln e di Ronald Reagan. Una mission impossible? Può darsi, ma pare che il vecchio Ron abbia un debole per le scommesse più difficili.
(ARTICOLO DEL 10-01-2008)

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"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )