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domenica 30 novembre 2008

Mozioni per la legalizzazione delle sostanze psico-attive


Con questo post mi voglio complimentare con il mio collega detto Buccia per aver presentato 4 mozioni in tema di antiproibizionismo, a breve grazie al lavoro di Carmelo Impusino(http://liberlex.altervista.org/wordpress/) queste proposte potrebbero divenire un vero e proprio progetto di legge unitario da presentare a vari parlamentari.
Ecco le proposte di Buccia:

Mozione 1

Rendere legale la coltivazione, la lavorazione, il possesso, il commercio di piante di canapa di tutti i generi, sementi e derivati.
Rendere legale il possesso in luoghi pubblici di quantità abbastanza consistenti di THC, MDMA, LSD.

Mozione 2

Rendere legale il possesso in luoghi pubblici di qualsiasi quantità di THC, MDMA (ecstasy), LSD (acido lisergico) e rendere legale e concorrenziale la vendita di tali sostanze.

Mozione 3

Istituire dei luoghi pubblici altamente igienizzati a pagamento in cui è legale l’uso delle seguenti sostanze: Buprenofine, Anfetamine, Chetamina, Metadone, Barbiturici, Cocaina; luoghi in cui testano le tue capacità cognitive prima della propria dipartita e che prevengono che i clienti usino mezzi motorizzati nel tempo seguente all’uso di tali sostanze.

Mozione 4

Estendere all’eroina l’elenco delle sostanze legalmente consumabili nei suddetti luoghi e liberalizzare la concorrenza tra coloro i quali vogliono istituire questi luoghi di consumo legale i quali però devono essere controllati periodicamente da commissari igienici.
Modifiche moz. 4:
Rendere legale il possesso in luoghi pubblici e l'uso in luoghi privato di qualsiasi quantità di THC, MDMA (ecstasy), LSD (acido lisergico) e sia resa legale e concorrenziale la vendita di tali sostanze solo a persone maggiorenni e in rivenditori (privati) autorizzati. Unire a ciò: politica di informazione seria e non terroristica sui danni delle sostanze, e forti sanzioni per chi commette un reato sotto l'effetto di queste sostanze stupefacenti e la facoltà al datore di lavoro di licenziare un suo dipendente nel caso in cui si presenti sul posto di lavoro sotto l'effetto delle suddette sostanze.

Con dl anti-crisi torna la "pornotax"


Rocco Siffredi: «Peccato per le donne» Eva Henger: «Sarà una vera mazzata»
Dopo anni che esiste solo su carta (è stata varata qualche Finanziaria fa ma non è mai uscito il regolamento attuativo) il porno in Tv e sulla carta stampata sarà stangato. Torna infatti con il decreto anti-crisi la "pornotax" (articolo 31). L’addizionale prevista sui produttori dalla manovra del 2005 si abbatterà dal periodo di imposta in corso sui programmi televisivi di contenuto pornografico e sulla carta stampata. La norma viene leggermente modificata: non ci sarà addizionale sul materiale «di incitamento alla violenza» ma solo su quello pornografico.

Viene inoltre ridefinito il concetto di materiale pornografico: «si intendono i giornali quotidiani o periodici, con i relativi supporti integrativi, e ogni opera letteraria, teatrale e cinematografica, audiovisiva o multimediale, anche realizzata o riprodotta su supporto informatico o telematico, in cui siano presenti immagini o scene contenenti atti sessuali espliciti e non simulati tra adulti consenzienti come determinati con decreto del presidente del consiglio su proposta del Ministro dei beni culturali entro due mesi dall’entrata in vigore del decreto.

«Peccato per le donne - scherza il pornoattore Rocco Siffredi - che almeno nei sexy-shop potevano trovare conforto in questo momento di crisi del maschio». C’è però ancora tempo per ragionare: ci sarà infatti il passaggio parlamentare del decreto mentre, a cura del ministro per i beni e le attività culturali, Sandro Bondi, ci sarà l’arduo compito di individuare in due mesi cosa è esattamente porno e cosa no.
«Trovo la pornotax una cosa un pò ipocrita - dice Henger - in Italia non si potrebbe neanche produrre il porno e allora non si possono neanche pretendere le tasse. Se invece si fa del porno un’attività totalmente legittima allora si può anche tassare».

venerdì 28 novembre 2008

Una presentazione del Post-modernismo


Nel quadro del “common law”, del diritto giurisprudenziale dal quale scaturisce il “realismo giuridico”, si situa anche un movimento nato negli Stati Uniti d’America negli anni Sessanta e noto col il nome di “critical legal studies”. Gli autori di questa corrente di pensiero adottano il punto di vista della “Left”, talvolta avvicinandosi addirittura alle prospettive marxiste secondo cui il diritto rispecchierebbe gli interessi della classe dominante. Questi “giuristi critici” svelano la parzialità del diritto, il suo tutelare gli interessi di determinate classi sociali: essi sono figli dei “realisti giuridici”; sono, per così dire, i loro fratelli di Sinistra. I “giuristi critici” guardano al diritto più “dal basso”, assumendo il punto di vista giustizialista del diritto delle corti, nei confronti delle quali questi autori sono assai critici: secondo loro, infatti, le corti piegano il diritto come vogliono e quindi fanno sempre politica a sostegno di interessi dominanti. Questa corrente di pensiero, quando è venuta meno la carica emancipatoria sull’onda della quale era sorta, è sfociata nel “postmodernismo giuridico”, che è anche un fenomeno europeo, benché sia più diffuso (e più aggressivo) negli USA. Come è noto, il postmoderno è la filosofia della pluralità e della scepsi, una filosofia che sostiene la non decidibilità razionale delle controversie. Per i postmoderni, non ci sono controversie che non possano essere risolte diversamente a seconda del giudice che decide: in tale prospettiva, quello della certezza del diritto è un mito o, come direbbero Lyotard e Vattimo, un “meta-racconto”. Già Jacques Derrida era chiarissimo su questo punto. Nel suo articolo Postmodernismo giuridico e giuspositivismo (2003), Ettore Gliozzi fornisce un’ottima sintesi delle tesi dei postmodernisti, precisando come essi abbiano portato all’estremo le convinzioni degli ermeneuti nietzscheani, il cui obiettivo decostruttivo è dimostrare l’impossibilità di distinguere le pretese fondate razionalmente. Secondo Gliozzi, sono due gli argomenti che i postmoderni fanno valere in campo giuridico: a) la dimostrazione che ogni pretesa normativa solleva controversie e dissensi dai quali si deve trarre la conclusione che nelle realtà pluraliste di oggi non si possono trovare pretese ultime e razionalmente fondate; b) l’impossibilità di distinguere, in un testo normativo, le interpretazioni corrette da quelle non corrette, giacché tutti i testi normativi sono immancabilmente suscettibili di interpretazioni diverse, come è dimostrato dal fatto che tali testi sono concretamente interpretati in maniere diverse. Come affermava Derrida, un testo è suscettibile di infinite interpretazioni e quel che conta non sono tanto le intenzioni dell’autore quanto piuttosto quelle di chi lo interpreta.
Quella dei postmodernisti giuridici è una radicalizzazione di una tesi che s’era già imposta a inizio Novecento in diverse forme, la tesi dell’indebolimento della razionalità assoluta: le matrici di tale tesi sono il politeismo dei valori (Max Weber), il diritto come voluntas e non come ratio (Hans Kelsen), il decisionismo (Carl Schmitt). A tal proposito, Ettore Gliozzi dice che l’anima nichilistica è interna all’intera tradizione novecentesca del diritto (e non solo alla corrente postmoderna), seppur declinata in modi diversi e con differente intensità.
Il dibattito contemporaneo è attraversato da una frattura tra la linea delle posizioni positivistiche e posizioni postmodernistiche da una parte e, dall’altra parte, la linea delle posizioni cognitivistico-illuministiche, linea che crede che le controversie siano razionalmente decidibili e che l’apparato delle norme serva esattamente a questo. La difficoltà nel decifrare tale dicotomia è dovuta alla complessità delle parti in causa e dalla loro specificità continentale (le posizioni sviluppatesi in Europa sono infatti ben diverse da quelle nate in America). In generale, si può dire che è una opposizione tra le posizioni neocostituzionalistiche (o anche “giusrazionalistiche”: Gustavo Zagrebelsky, Jürgen Habermas, Robert Alexy) e l’irrazionalismo giuridico (Natalino Irti preferisce parlare di nichilismo giuridico). Quest’ultimo – l’irrazionalismo – si articola poi in postmodernismo (soprattutto in America) e in positivismo (in Europa), anche se sappiamo che a sua volta il positivismo ha volti diversi (il normativismo di Kelsen e il decisionismo di Schmitt). I neocostituzionalisti credono (anche se in modi diversi tra loro) nella decidibilità razionale delle controversie, decidibilità che avviene in forme dialogico-comunicative.
Accanto a queste, vi sono poi posizioni che enfatizzano la dimensione del “non diritto”: così, in Flessibile diritto, Jean Carbonnier scrive significativamente che è un mito l’idea che tutto sia risolvibile tramite le norme, come risulta lampante dal confronto con le altre culture non occidentali. I “giuristi dogmatici” (così li chiama Carbonnier) pensano che il diritto, nella sua onniavvolgenza, sia dappertutto; come già dicevano i Romani, “ubi societas, ibi jus”: Carbonnier parla a tal proposito di “pangiurismo”. Il titolo – Flessibile diritto – suona un po’ strano, certo non meno di Il diritto mite (l’opera di Zagrebelsky): tutte e due le opere ben si inquadrano nel clima postmoderno di tramonto dei valori ultimi e della fondatività: la stessa prassi del patteggiamento risponde a questo mutamento di paradigma. Contro il “pangiurismo”, Carbonnier sostiene che non tutto il sociale cade sotto la tutela del diritto: anche Serge Latouche spiega in maniera assai chiara come gli Occidentali abbiano imposto al mondo intero categorie ad esso estranee, tra le quali il diritto.
Nella galassia postmodernista, è radicata la tesi secondo cui le relazioni sociali non sono necessariamente riducibili a diritto: e non ci si limita a mettere in forse la decidibilità razionale delle decisioni, ma si ridimensiona anche lo spazio del diritto e ci si spinge a contestare che esso abbia validità in tutti i campi. Lo stesso rifiuto del potere da parte degli anarchici (tanto nella versione dell’anarchismo iperliberale americano, che rifiuta l’intervento statale, quanto nella versione anarco-socialista europea, che rifiuta la proprietà privata) comprende anche questa matrice. Sulla base di quanto siamo venuti dicendo, si può capire come la filosofia del diritto contemporanea in Europa si sia trovata esposta alle tensioni scaturenti dal tentativo di coniugare tra loro posizioni diversissime. Significativamente, in Fatti e norme (ma già nel Discorso filosofico della modernità) Habermas si è misurato col pensiero postmoderno identificandosi con una posizione giusrazionalistica che non si appiattisce sulle vecchie posizioni d’un tempo. Lo stesso John Rawls, a partire da Una teoria della giustizia e da Liberalismo politico, ha distinto il “razionale” dal “ragionevole”, reintroducendo così nel dibattito una nozione di razionalità mite (o flessibile) che contrasta con quella fondazionista, invasiva e imperiosa della tradizione e che risente della teorizzazione aristotelica della fronhsiV.
La novità del neocostituzionalismo ha a che fare con l’oggetto che ne costituisce la preoccupazione costante: lo Stato costituzionale. Sono neocostituzionalisti pensatori molto diversi tra loro, come l’americano Ronald Dworkin (autore de I diritti presi sul serio), il tedesco Robert Alexy, l’italiano Gustavo Zagrebelsky e l’argentino (scomparso prematuramente) Carlos Nino, il quale si occupa del rapporto tra democrazia e diritto e sviluppa una teoria del “diritto come morale applicata” (come recita un suo noto testo). Questi quattro autori concordano nell’ammettere una connessione tra morale e diritto (connessione tipica sia del giusnaturalismo sia del costituzionalismo e rigettata dal positivismo giuridico). Se guardiamo all’opera Il diritto mite di Zagrebelsky, notiamo come il “diritto mite” in questione scaturisca dall’unione di leggi, di diritti e di principi di giustizia: Zagrebelsky insiste molto sulla contrapposizione delle regole (le norme che troviamo nelle leggi) e i principi di giustizia, i quali sono i soli a portare alla realtà costituzionale, giacché costituiscono l’ordine giuridico; le regole, invece, esauriscono in se stesse la loro forza e sono leggi al pari di tutte le altre. Detto altrimenti, i principi sono costitutivi dell’ordine della comunità: mentre le regole ci danno il criterio delle nostre azioni nei vari contesti (autorizzano o vietano certe azioni), i principi non ci dicono nulla direttamente, ci danno criteri per prendere posizione dinanzi a situazioni a priori indeterminate quando queste vengano a determinarsi concretamente. I principi generano orientamenti, un hqoV, un qualcosa che troviamo nella tradizione della filosofia pratica di marca aristotelica. Ben si capisce, allora, in che misura l’elemento dei principi permetta di stabilire un nesso tra costituzionalismo e giusnaturalismo e, al tempo stesso, porti decisamente più in là rispetto al giusnaturalismo. Gli autori neocostituzionalisti insistono sempre nel mostrare come questa concezione del diritto presupponga una sorta di “atto di orgoglio” del diritto positivo e non di rifiuto del medesimo: infatti, con la costituzione viene ad essere il diritto positivo, non quello naturale, giacché si tenta di positivizzare ciò che nei secoli passati era appannaggio del diritto naturale. Le assemblee costituenti, nella loro attività originaria di fondazione di una comunità giuridica, riflettono questi principi attraverso la composizione del pluralismo politico ottenuta con la sublimazione dei principi stessi: così, nella costituzione italiana le tre anime del liberalismo, del cattolicesimo e del comunismo hanno concretamente trovato una composizione delle loro diverse posizioni sublimando i valori in principi che ammansiscono i valori. Quando si ha l’instaurazione di un siffatto ordinamento costituzionale, i principi, i quali hanno composto il pluralismo, svolgono una seconda funzione: perfezionano l’ordinamento giuridico, servono cioè a superare quelle situazioni di paralisi normativa che si hanno quando vi sono antinomie tra le norme. Ciò si verifica assai spesso, poiché un ordinamento giuridico non è mai prodotto unitariamente: in tale eterogeneità di leggi, sono frequentissime le antinomie, gli scontri tra leggi incompatibili tra loro. Per poter risolvere non traumaticamente tali scontri (per poterli cioè risolvere senza avere la paralisi dell’attività giuridica), i principi orientano il legislatore a intervenire in quelle situazioni in cui il conflitto può diventare dirompente.
I principi svolgono anche una terza funzione, che è più problematica e sfuggente rispetto alle prime due: come scrive Zagrebelsky, “la realtà posta a contatto col principio viene per così dire a vivificarsi”, acquisendo valore; in altri termini, i principi valorizzano la realtà illuminandola. Grazie ai principi, infatti, il diritto si eticizza in senso hegeliano, ovvero acquista una valorizzazione concreta: come scrive ancora Zagrebelsky, “il valore si incorpora nel fatto” e in tal maniera esprime una domanda di presa di posizione da parte degli interpreti del diritto. In questa prospettiva, salta quel rigido divisionismo tra “essere” e “dover essere” che ha innervato la tradizione presentandosi sotto forma di dogma: tutta la “filosofia pratica” del Novecento (da Leo Strauss a Voegelin, dalla Arendt a Jonas) mira esattamente a far saltare tale dualismo che occupava un posto centrale nel positivismo giuridico. Secondo questo terzo valore riconosciuto ai principi, dalla realtà stessa i principi farebbero scaturire il “dover essere”: si tratta, in verità, di una tesi che non soddisfa del tutto, poiché i principi, nella misura in cui valorizzano la realtà, possono in fondo essere interpretati e agiti in modi a tal punto diversi da valorizzare qualsiasi realtà, portando per tale via a quella che Carl Schmitt definiva la “tirannia dei valori”, cioè a posizioni valoriali in conflitto tra loro e dunque foriere di cesure e perfino di guerre civili. Dunque, si può affermare che i tre capisaldi di Zagrebelsky (diritti, principi, leggi) si collochino su una scala di crescente problematicità: infatti, se è vero che le leggi non creano alcun problema, è altresì vero che i diritti già creano qualche problema (dove finiscono? Dove iniziano?); nel caso dei principi, poi, la problematicità raggiunge l’apice.
Vi è anche un aspetto giuridico del problema riguardante il neocostituzionalismo: se pensiamo al “diritto mite” come insieme di leggi, di principi e di diritti, allora ragioniamo su un diritto che è eminentemente giudiziario e pertanto ci poniamo nell’ottica del giudice. Molti autori che sono critici nei confronti dei neocostituzionalisti, pur non essendo positivisti giuridici incalliti, avvertono il rischio di una degenerazione dello “Stato di diritto” in uno “Stato giurisdizionale” di tipo medievale, nel quale grande rilevanza aveva la funzione giurisdizionale. Charles McIlwain dice significativamente che il costituzionalismo c’era già in passato e insiste molto sul dualismo medievale tra “gubernaculum” (le funzioni di governo e legislative: il sovrano che emana decreti, non essendoci ancora la divisione dei poteri) e “iurisdictio” (il dire la giustizia, le funzioni giudiziarie). Nell’Età moderna, vige la tripartizione del potere (legislativo, esecutivo, giudiziario): ma i critici del costituzionalismo paventano il ritorno al dualismo medievale, nel senso che – essi notano – i poteri legislativo ed esecutivo sono sempre più difficilmente distinguibili, mentre il potere giudiziario ha guadagnato terreno. Ciò appare evidente se si volge lo sguardo a quella nuova costruzione che è l’Unione Europea, nella quale è lampante la dicotomia tra “gubernaculum” e “iurisdictio” e nella quale il potere legislativo sembra essere sparito, mentre grande spazio ha la “iurisdictio” (basti ricordare che fin dai primi anni ’60, attraverso la Corte di Giustizia di Lussemburgo, è possibile scavalcare la giurisdizione nazionale). Per questo motivo, si dice che il sistema europeo sembra oscillare tra tecnocrazia economica (“gubernaculum”) ed espertocrazia giudiziaria (“iurisdictio”), polarità nella quale si avverte la debolezza della democrazia (il “deficit di democrazia” europeo di cui tanto si parla). Lo stesso Habermas ha espresso ripetutamente la sua preoccupazione circa la deriva giurisprudenziale e la conseguente restrizione della democrazia. E Carlos Nino cerca di mostrare come l’adozione di questo punto di vista di connessione tra diritto e morale possa ridar vita alla democrazia: il rischio è tuttavia la riduzione del diritto alla morale; così, Dworkin afferma esplicitamente che i giudici americani interpretano (e sempre più dovrebbero farlo) la costituzione come insieme di principi morali: il rischio è però quello di voler poi esportare in altri Stati (magari con le armi) quell’insieme di principi morali.

http://www.filosofico.net/dirgiustizia9.htm

giovedì 27 novembre 2008

Regole: causa, non cura della crisi finanziaria


Di: Roderick T. Long
Oggi intendo spiegare come la teoria austriaca dei prezzi valga per i cicli di boom-bust in generale, e per la presente crisi finanziaria in particolare; e perché, quanti la stanno addebitando al libero mercato, siano rimasti piuttosto indietro.
Ricordiamo che i prezzi di mercato sono il meccanismo che permette ai consumatori di riordinare i beni di consumo per determinare scelte tra i beni di produzione; se i consumatori valutano di più beni prodotti in acciaio che non in gomma, il prezzo dell’acciaio aumenterà rispetto a quello della gomma, e questo incoraggerà la parsimonia nell’uso di acciaio, oltre ad incoraggiarne la produzione di nuovo (Questo è incidentalmente il motivo per cui le leggi contro l’estrazione di materie prime sono una cattiva idea; prolungando la carenza di un bene, i cui effetti si cercano di attenuare, annullando la funzione del prezzo come segnalatore di scarsità. Quando i prezzi sono impediti legalmente ad aumentare durante un periodo di scarsità, è come dire al mercato: “Hey voi, non c’è scarsità, non c’è alcun motivo di risparmiare su questo bene, non c’è alcun motivo di aumentarne la produzione, sentitevi liberi di concentrare altrove i vostri investimenti” - che è ovviamente il peggior messaggio che sia possibile mandare).
I tassi di interesse sono anch’essi una sorta di prezzo; segnalano la misura in cui i consumatori siano disposti a differire soddisfazioni di breve termine per poterne avere di maggiori in futuro. Per fare un esempio, se Crusoe fabbrica una rete sarà in grado di catturare molto più pesce che non con le sue mani, ma il tempo di fabbricarla non potrà essere usato per pescare; se Crusoe può permettersi di rinviare la cattura di alcuni pesci presenti per fabbricare la rete, allora è razionale che lo faccia; ma al contrario, se sta facendo la fame e potrebbe non sopravvivere alle razioni ridotte fino al completamento della rete, allora dovrebbe continuare a pescare con le mani e tenere il progetto di una rete per un altro giorno. Se per lui abbia senso togliere tempo alla pesca con le mani per tessere la rete, dipende unicamente dall’urgenza del suo bisogno di pesce a breve termine, dalla sua preferenza temporale.
In un libero mercato, i bassi tassi di interesse segnalano una bassa preferenza temporale, mentre alti tassi di interesse segnalano un’alta preferenza temporale. Se la vostra preferenza temporale (come l’urgenza che porta a preferire soddisfazioni presenti piuttosto che quelle future) è bassa, allora dovrei offrirvi leggermente più di X tra un anno per indurvi a separarvi da X oggi; se fosse alta, allora dovrei offrirvi molto più di X tra un anno in cambio di X oggi. Il tasso di interesse sarebbe così guidato dalle scelte tra progetti di breve termine, meno produttivi, e quelli più produttivi, di cui però i benefici richiederanno più tempo per essere raggiunti.
Quando però le banche centrali, manipolando l’offerta di moneta, tengono artificialmente basso il tasso di interesse, i segnali vengono distorti; gli investitori sono portati ad agire come se i consumatori avessero preferenze temporali inferiori di quanto non abbiano realmente. Pertanto gli investitori sono spinti ad investire in progetti che poi nel lungo termine si rivelano insostenibili, in quanto il consumo differito in questi progetti non viene realmente differito, così che i beni che gli investitori stanno calcolando per completare il progetto di lungo termine non saranno tutti disponibili quando serviranno loro. Questo insostenibile investimento è il boom, o la bolla; il bust viene quando l’insostenibilità viene riconosciuta ed inizia un costoso processo di liquidazione.
La teoria austriaca del ciclo economico è talvolta chiamata in maniera fuorviante “teoria dell’eccesso di investimento”. Il problema non sta nell’eccesso di investimento, ma nel fatto che lo fanno in progetti di lungo termine ad alto rendimento e sottoinvestono in progetti a minor rendimento di breve termine. Ecco perché gli austriaci parlano di “malinvestment” piuttosto che di eccesso di investimento. La tendenza prevalente del mainstream di trattare i capitali come omogenei ignora la differenza tra più alti e più bassi livelli nella produzione di beni, non può quindi apprezzare i costi di passaggio dall’alta alla bassa quando la bolla scoppia.
Oltre alla cattiva allocazione degli investimenti tra input di livello superiore o inferiore, l’inflazione monetaria produce ulteriori squilibri. Quando la banca centrale crea moneta, la nuova moneta non si propaga in tutta l’economia istantaneamente; alcuni settori settori ricevono per primi la nuova moneta, quando sono ancora di fronte ai vecchi prezzi, inferiori, mentre gli altri settori ricevono la nuova moneta per ultimi, dopo aver già subito l’aumento dei prezzi. Il risultato di questo “effetto Cantillon” non è solo la sistematica redistribuzione della ricchezza verso i soggetti favoriti, ovvero le banche ed il governo, ma anche la stimolazione artificiale di alcuni settori, facendoli apparire più redditizi di quello che siano realmente, e dirigendo verso di essi livelli di investimento ingiustificati dal punto di vista economico.
E’ vero, come viene spesso sostenuto, che la descrizione resa dagli economisti austriaci sottostimi l’abilità degli investitori e degli imprenditori di riconoscere gli effetti delle politiche del governo, e di compensarle? No: anche sapendo che un certo prezzo rappresenta un mix tra genuini segnali di mercato e distorsioni politiche, si potrebbe non sapere quale parte del prezzo rappresenti questo fattore, perciò come è possibile compensare la distorsione? (Allo stesso modo, se si conosce un’anomalia magnetica nella zona in cui si sta usando una bussola, l’informazione non è esattamente di grande aiuto se non si conosce l’esatta posizione dell’anomalia e la sua forza rispetto al campo magnetico terrestre; diversamente non ci sono altri modi per correggerla. E dato che la direzione della bussola è almeno in parte verso il vero nord, si preferisce fidarsene nonostante le distorsioni, che non semplicemente abbandonarla e procedere tirando la monetina).
Nella visione austriaca, l’inflazione governativa dell’offerta di moneta attraverso l’abbassamento artificiale dei tassi di interesse, è stata la causa principale della Grande Depressione. (Questo è controverso per gli economisti mainstream, i quali non ritengono la politica della Fed compiutamente inflazionistica, dal momento che i prezzi rimasero relativamente stabili nel periodo precedente al crash. Per gli austriaci la questione cruciale non è però se i prezzi fossero più elevati rispetto quanto fosse successo in precedenza, ma se questi fossero stati superiori rispetto a quello che sarebbero stati in assenza di inflazione monetaria). Similmente secondo gli austriaci, la bolla immobiliare che ha scatenato la crisi odierna, è un prodotto della politica di bassi tassi di interesse praticata dalla Federal Reserve negli ultimi anni. (Una precisazione per evitare un frequente malinteso: dal punto di vista austriaco non c’è nulla di sbagliato riguardo i bassi tassi di interesse di per sé; infatti essi sono un sintomo di una economia sana, in quanto più prospere sono le persone e più sono disponibili a rinviare il consumo attuale. Ma non è possibile rendere un’economia sana inducendo artificialmente i sintomi della salute, in assenza delle loro motivazioni sottostanti. Allo stesso modo, l’assenza della scabbia sulla pelle è un sintomo di salute, ma non è possibile promuovere la salute strappando via le croste: prendano nota i difensori del salario minimo).
Nel 1920, mentre gli economisti mainstream proclamavano che i prezzi delle azioni avevano raggiunto un “altopiano permanentemente alto”, Mises e Hayek stavano prevedendo un crollo (come del resto fece anche mio nonno, Charles Roderick McKay, che come vice governatore della Federal Reserve Bank di Chicago, protestò contro la politica dei tassi tenuti artificialmente bassi, e riuscì a tenere fuori la succursale di Chicago dalla politica del denaro facile, fino a quando la sede centrale non provvide ad annullarne le scelte. Aveva previsto i probabili risultati, e se ne andò di corsa dal mercato azionario ben prima del crollo); analogamente in questi anni gli austriaci hanno insistentemente avvertito di una bolla immobiliare, mentre gente come Greenspan e Bernanke insisteva allegramente nel dire che il mercato immobiliare fosse solido.
Ora tutti vanno dicendo, molto ragionevolmente, che in questa crisi dobbiamo evitare gli errori che hanno dilatato la Grande Depressione; il problema è che questo è del tutto inutile senza l’accurata comprensione di quali siano stati questi errori. Dal punto di vista austriaco, l’attuale piano di iniettare più “liquidità” nell’economia equivale semplicemente a trattare la malattia con una dose più massiccia del veleno che l’ha causata. Il tentativo di curarla attraverso la simulazione artificiale dei sintomi della salute è, letteralmente, la voodoo economics.
Ovviamente la responsabilità non è tutta della Federal Reserve; ci sono molte altre politiche del governo che hanno incoraggiato i prestiti rischiosi. C’è stata una certa attenzione dei media ai cambiamenti, durante la presidenza Clinton, del Community Reivestment Act, ad esempio, il quale incoraggiava standard di prestito più lassisti al fine di attirare mutuatari provenienti dalle minoranze. L’affermazione che questa spiegazione è “razzista” significa confondere la ragione per cui concedere un prestito è rischioso, con quella per cui un prestito, nonostante sia rischioso, viene concesso; allo stesso modo, concentrarsi su questo esempio ristretto manca di mostrare il quadro generale, cioè che quando il governo federale è lo sponsor delle corporations del credito di massa come Freddie Mac e Fannie Mae, questo crea aspettattive (codificate legalmente o no) che sarà esso stesso a garantirne la solvibilità. Proprio come con la crisi dei risparmi e dei prestiti degli anni ‘80, l’aspettativa di rimborso in caso di fallimento ha incoraggiato i prestiti rischiosi, perché tale rischio è socializzato. (E aldilà di questo, ci sono i fattori più profondi che limitano le possibilità per la stragrande maggioranza e le rendono necessario accendere mutui per comprare una casa; dando per scontato che questa necessità richieda una giustificazione).
Anche George Bush, nel suo discorso sulla crisi, ha riconosciuto (o ha letto le parole di persone che hanno riconosciuto) che l’aspettativa di un salvataggio imminente, se necessario, ha contribuito ad incoraggiare i prestiti rischiosi – tuttavia sono sembrate sfuggirgli le ulteriori implicazioni del fatto che sollecitando il bailout ha confermato e rafforzato le aspettative che hanno aiutato ad alimentare la crisi – ponendo così i presupposti per ripetere la crisi in futuro.
Il granello di verità nell’altrimenti ridicolo mantra statalista sulla crisi causata dalla “mancanza di regole” è che quando la regolamentazione A garantisce ad un’impresa privata o semi-privata il diritto di giocare con i soldi della gente, ma non riesce ad applicare la regolamentazione B che restringe il potere dell’impresa di prendere rischi eccessivi con quei soldi, la conseguente crisi è in un certo senso attribuibile alla mancanza di regolamentazione B. Ma il fattore fondamentale non è l’assenza di B di per sé, ma la sua assenza combinata con la presenza di A; l’assenza di B non può essere un problema se intanto manca anche A. Quindi, di certo, c’è stata “insufficienza di regole” se si intende il fallimento del governo per frenare, attraverso ulteriori regolamenti, i problemi creati dalle sue regole iniziali.
Quindi, se il problema è causato da A senza B, si potrebbe obiettare, perché dovremmo adottare la soluzione libertaria di sbarazzarci di A? Non possiamo risolvere il problema semplicemente tenendo A, affiancandole però B? La risposta è no, perché la pianificazione centrale non funziona; quando si risponde a cattive regole aggiungendone di nuove per contrastare le vecchie, piuttosto che abrogarle e basta, si aggiungono sempre più strati tra decisioni e mercato, si imbacucca il sistema di feedback dei prezzi e si rischia il caos nel calcolo economico.
Però, potrebbe obiettare ancora, se noi fossimo in una situazione in cui abbiamo A ma non B, e dove inoltre abrogare A non è politicamente possibile, mentre adottare B lo è – in questo caso non dovremmo premere per aggiungere B? In certe circostanze, dipende dai dettagli, forse è così; però la domanda più importante, a mio avviso, è: dovremmo dedicare più tempo ed energie a cambiare le caratteristiche fondamentali di un sistema fondamentalmente sbagliato entro i parametri di ciò che viene ora considerato politicamente possibile, o dovremmo lavorare per cambiare i parametri stessi? Nelle parole di Hayek: “Quelli che si sono interessati unicamente a ciò che sembrava praticabile allo stato delle opinioni comuni, hanno costantemente trovato come questo diventasse rapidamente politicamente impossibile per effetto di dei cambiamenti nell’opinione pubblica che non avevano mai fatto niente per guidare”.
Va bene, diranno alcuni, forse è stato il governo, non il laissez-faire, che ci ha gettati in mezzo al disordine; ma ora che ci siamo dentro, non abbiamo bisogno del governo per uscirne? La mia risposta è che il governo non è in grado di portarci fuori. Non c’è molto che il governo possa fare per aiutarci (a parte abrogare leggi, regolamenti e sussidi, che prima hanno creato e ora perpetuano il disordine – ma questo significherebbe poco meno che smettere di fare alcunché, e comunque dati gli incentivi che agiscono per spingere il governo ad essere decision-maker non c’è una sola possibilità realistica che ciò accada). Il bailout, il salvataggio, è la semplice deviazione delle risorse dei produttivi poveri e della produttiva classe media, a beneficio dei ricchi falliti, e non sembra una buona idea dal punto di vista etico o economico. L’unico effetto buono che un tale bailout possa avere (a meno che non si preferiscano ai costosi boondoggles [i celebri e bizzarri programmi inutili del New Deal, N.d.T.] senza pile di corpi morti a fianco, i costosi boondoggles con) è convincere i guerrafondai che non ci si può permettere una guerra globale contro il terrorismo in questo momento – ma non c’è alcun segno che si siano convinti di una cosa del genere.
Se il sistema dei prezzi fosse stato autorizzato a funzionare pienamente, la crisi avrebbe risolto sé stessa – non istantaneamente o senza fare alcun male, certo, ma infinitamente più velocemente di quanto il governo possa mai manovrare. Quello che il governo dovrebbe fare è, in ultima analisi, nulla.
Ma una tale risposta sarebbe politicamente impossibile? Praticamente è vero; ma cosa lo rende tale? Sono le tendenze corporative del popolo americano? Il congresso ha votato il bailout perché gli elettori lo reclamavano? Al contrario, la maggior parte degli elettori sembrava decisamente contraria ad esso. Il bailout è passato perché il congresso prima di tutto risponde non agli elettori, ma al big business. E questa è la fonte dell’impossibilità politica, che non deriva da una ideologia variabile, ma dalla natura stessa del governo rappresentativo. Un governo responsabile verso il popolo potrebbe essere difficilmente un paradiso (dato che le persone sono difficilmente libere da ignoranza e pregiudizi, e che il volere della maggioranza è troppo spesso un meccanismo per esternalizzare i costi delle preferenze delle maggioranze sulle minoranze) – ma discutere i meriti di un governo genuinamente responsabile verso il popolo è puramente accademico, perché un simile governo, qualunque siano i suoi meriti o demeriti, è impossibile; non è possibile creare un monopolio delle risposte alle persone. Al contrario del mercato, nessun sistema politico è mai stato escogitato o trovato a subordinare l’influenza di interessi concentrati ad interessi dispersi. Il monopolio non può essere “riformato” e deve essere abolito.
Questo non significa, ovviamente, dire che certe forme di governo siano meno indifferenti di altre, così come certe forme di schiavitù sono meno terribili di altre. Una delle caratteristiche più impressionanti della schiavitù nel sud prima della guerra civile, ad esempio, è quanto fosse peggiore, in media, rispetto la maggior parte della forme storiche di schiavitù; e se gli abolizionisti, disperando la prospettiva di liberare gli schiavi, avessero concentrato i loro sforzi per riformare la schiavitù americana per renderla più simile alla schiavitù greco-romana o a quella scandinava medievale, non voglio dire che non sarebbe valsa la pena di farlo o che non avrebbero reso molte vite effettivamente migliori – ma non è regolare le proprie aspirazioni politiche un po’ in basso?

dal blog: http://liberteo.wordpress.com/011/

martedì 25 novembre 2008

Sull'Antropologia politica dei Radicali


Liberali, liberisti, libertari: tre termini, da saper usare tutti.
di Angiolo Bandinelli

Ho sempre interpretato le modalità di intervento e di iniziativa politica proprie dei radicali come una deviazione, ma anche come un completamento e arricchimento, del liberalismo classico. So che molti, anche radicali, non amano quella definizione del partito - o della galassia - radicale che Pannella spesso ripete e continuamente arricchisce: una definizione che unisce e lega assieme tre ‘forme' di espressione culturale e politica tradizionalmente viste come diverse, se non proprio disgiunte ed opposte tra di loro: "liberale, liberista e libertario". Mentre i due primi termini giocano tra di loro una partita anche fortemente dialettica (e le vicende economico-finanziarie di questi giorni hanno riacceso la ben nota disputa sui rapporti reciproci) ma che li pone sullo stesso piano, come appartenenti alla stessa famiglia, il terzo termine - "libertario" - viene considerato come spurio, un intruso non appartenente all'albero genealogico dei primi due e da questi tenuto anzi in dispregio. Pannella non ha certo la pretesa di conferire ai tre termini una attestazione, una patente di consanguineità, né vuole stabilire tra di essi un rapporto di pacifica coesistenza: conosce le loro differenze storiche, che non possono essere stravolte o forzate. Vuole piuttosto ricordarci - ma da politico - quanto sia pragmaticamente importante e necessario saper utilizzare l'uno o l'altro di essi per incidere nella realtà contemporanea, con le sue peculiarità e difficoltà. Sa bene che l'iniziativa politica, se vuole svolgere una funzione autenticamente liberatrice, si trova di fronte avversari, ostacoli e problemi che richiedono una risposta modulata, di volta in volta, su strumenti concettualmente diversi: e sarà appunto, di volta in volta, iniziativa liberale e/o liberista oppure potrà - anzi dovrà - essere di stampo libertario. A quest'ultima categoria, o modello, appartengono sicuramente le iniziative di tipo nonviolento, gandhiano, quelle che richiedono l'intervento del corpo quale strumento oltre che quale fine ed obiettivo etico. Non è la disquisizione liberale, non è l'oltranzismo liberista, ma la presenza diretta del corpo - nella sua fisicità - a muovere l'iniziativa nonviolenta, a partire dalla disobbedienza civile, dal sathyagraha, dagli scioperi della fame e della sede, dai sit-in o da una o l'altra delle forme di lotta tipiche della cultura, della politica libertaria. Ecco dunque il corpo assunto come attore e protagonista della politica. Non c'è una qualche deriva ‘antropologica' in questo modello operativo? Sicuramente sì, ed è una deriva che ci aiuta a comprendere e a penetrare il senso della modernità, del nostro tempo, così come ce lo fornisce il professor Corbellini (anche quando dalle sue conclusioni si dissente, e io ne dissento...). Esplicitamente, nel suo intervento, Marco Pannella tiene a sottolineare ancora una volta la dimensione "antropologica" che sta assumendo la politica contemporanea: se non altro come conseguenza dell'aumento esponenziale della popolazione mondiale, un aumento che inevitabilmente introduce mutazioni, se non altro di comportamenti, nella "specie" umana. Nella lunga storia della galassia radicale, questa consapevolezza si è esplicitata in forme varie. Oggi si manifesta con la massima chiarezza nel formidabile lavoro della associazione "Nessuno tocchi Caino" come anche nell'attività in continua evoluzione della associazione "Luca Coscioni". Non a caso il suo motto è "Dal corpo del malato al cuore della politica". Non è una formula riduttiva, è invece un ampliamento della consapevolezza della fisicità dell'uomo nelle sue diverse forme, nei suoi diversi aspetti. Dovrà venire il momento per approfondire un po' più da vicino le mille sfaccettature di questa invenzione della galassia radicale, della sua "antropologia politica". Che sia questo l'impegno da affidare alla seconda edizione della "Scuola Coscioni"?

lunedì 24 novembre 2008

Lettera aperta al presidente della regione Puglia Niki Vendola


In questi giorni di grande trambusto dovuto alla crisi finanziaria,alla crisi alitalia e così via...si è verificato un avvenimento di enorme rilevanza sociale e morale,ovviamente mi riferisco alla sentenza della cassazione che da il via libera all’interruzione dell’alimentazione forzata di Eluana Englaro... Inutile credo dire chi è Eluana.... Questa sentenza doveva porre fine all’estenuante calvario di eluana e del padre,il quale nel corso di questi 17 anni ha portato avanti una battaglia laica,civile e giuridica, il quale oltre a dover sopportare l’immenso dolore per la perdita di una figlia,è stato, ed è tutt’ora ripetutamente accusato di pensare solo ai “suoi interessi” alludendo ad una presunta quanto più squallida ipotesi che il signor Englaro voglia “liberarsi” della figlia... In queste circostanze bisognerebbe mettere da parte l’appartenenza politica,il credo religioso o peggio ancora un finto moralismo ma bisognerebbe lasciar spazio ad un vero e sincero sentimento di umanità... Eppure così non è... Dopo la sentenza diversi giornali telegiornali ed esponenti politici hanno gridato “vergogna”,hanno parlato di omicidio di stato... anche gli esponenti del clero si sono affrettati a gridare il loro dissenso e a condannare la scelta del signor. Englaro, c’è chi propone fiaccolate, chi manda bottigliette d’acqua e così via... tutte queste persone così accecate dal loro moralismo e dal loro credo hanno anteposto il loro dissenso moralista alla sofferenza dalla famiglia Englaro. Così nella civilissima e cattolicissima Lombardia, cuore vivo di comunione e liberazione, viene negata l’accoglienza ad Eluana nel suo ultimo viaggio, dando come motivazione che nei loro ospedali si pratica il culto della vita e non della morte, così dopo la Lombardia si è aggiunto il Friulia venezia giulia e la Toscana, dando tutti la stessa motivazione. E così dopo aver ricevuto la porta in faccia dalla vita Eluana continua anche nei suoi ultimi giorni a ricevere porte in faccia... In nome della “vita”,termine privo di significato per molti, si sbatte la porta in faccia alla dignità della vita,al rispetto,alla sofferenza di un padre che finalmente potrà piangere sulla tomba della propria figlia. Ora io scrivo direttamente a lei presidente Vendola, le chiedo di offrire la nostra calda terra come culla di pace e di solidarietà sincera ad Eluana, le chiedo di mettere a disposizione il nostro mare,il nostro sole come sfondo all’ultimo viaggio di Eluana, le chiedo di dimostrare che si può, si deve, andare oltre le proprie credenze per dare spazio alla solidarietà tra esseri umani, le chiedo e chiedo a tutti noi pugliesi di accogliere con un grande abbraccio eluana e il papà, di far sentire meno solo un uomo già beffato dalla vita..... Il nord è pieno di centri d’eccellenza medica, noi del sud possiamo dimostrarci centro d’eccellenza civile. Confido in lei e ancor più nella mia terra...

Anita Pallara

(pubblico una bellissima lettera letta dal sito dell'Associazione Luca Coscioni)

sabato 22 novembre 2008

"Primarie PD Maddaloni: Tutto tranne che democratiche"


POLITICA Maddaloni – "Stamane 21 Novembre si svolgono in tutta Italia le primarie dei giovani del Pd, anche Maddaloni fa la sua differenza, non solo come ha riportato l'anarchico liberale Letizia Domenico che è venuto a conoscenza di candidati in particolare residenti a Santa Maria a Vico che nonostante la raccolta firme non sono stati inseriti nelle liste di votazioni, insomma stanno ''fuori dagli schemi ''. Ciò che riporto è gravissimo è dovrebbe essere segnalato ai vertici del pd che comunque sembrano sostenere questa linea di non conoscenza delle elezioni per favorire i propri delfini a svantaggio di voci davvero libere e alternative come la ventiquattrenne Giulia Innocenzi dell'Associazione Luca Coscioni, una sincera democratica e radicale.
Letizia ci dice sbalordito e amareggiato che addirittura a Maddaloni non si può votare cioè i seggi per votare non ci sono, non sono stati aperti, e chi voleva votare quei candidati che non sono stati esclusi deve recarsi a Caserta altrimenti non può farlo, tornando ai fatti oggi i giovani per votare i giovani del Pd (giovani dai 14-29 anni) devono spendere 1.10 euro per andare a corso Trieste a Caserta 1 euro per le primarie, 1.10 per tornare a Maddaloni, Domenico ripete, ho capito tutto: a Maddaloni è stato tutto calcolato, alle primarie dei giovani , i giovani è meglio che non votano."

Autore: Domenico Letizia -
Comunicato Stampa
http://www.casertanews.it/public/articoli/200811/art_20081121183924.htm

giovedì 20 novembre 2008

Il mito del buon governo


Uno degli errori più grandi e persistenti dei liberali classici è di credere “nel buon governo,” in un governo che faccia “quello che si suppone debba fare.”Non c'è niente che lo stato possa fare, e di cui la società ha bisogno, che non possa essere fatto in modo ben migliore dal mercato. Un altra questione altrettanto eloquente è questo: nessuno stato con il potere di fare ciò che si presume necessario si limiterà a quello. Si espanderà fin dove l'opinione pubblica tollererà.
A volte la cosa è più facile da vedere esaminando i governi stranieri, come il tragico caso della Cina. Il governo si sta imbarcando in un'impresa esplosiva per impegnare 586 miliardi di dollari nelle “infrastrutture” in due anni. Il motivo è la classica giustificazione keynesiana: le spese sono necessarie per stimolare gli investimenti. Non importa che questo trucco non abbia mai funzionato in tutta la storia dell'umanità. Questo è piuttosto un grande programma per saccheggiare il settore privato a favore del partito comunista, che quindi spenderà i soldi per aumentare il suo potere.
Nessun paese ne sa di più della Cina sui fallimenti di questo tipo di pianificazione centrale. Ogni forma di collettivismo è stata provata su queste povere anime, e decine di milioni hanno perso le loro vite nel corso dei folli esperimenti collettivisti di Mao. Che questo nuovo programma venga promulgato nel nome di Lord Keynes piuttosto che di quello di Karl Marx è irrilevante. Gli effetti sono gli stessi: il potere si espande e la libertà si riduce.
La guarigione della Cina dal comunismo è una delle storie di maggior ispirazione nella storia dello sviluppo economico. Il paese è passato dall'essere una terra catastrofica sofferente e impoverita alla modernizzazione nel giro di appena 15 anni. Lo stato si è quasi azzerato con il continuo sviluppo del settore privato. Questo non è stato un piano. È stato il risultato de facto di una nuova tolleranza dell'attività economica libera. Lo stato è entrato in una fase protettiva per mantenere il proprio potere e non ha fatto niente per arrestare la crescita dell'azienda privata. Il risultato è stato glorioso.
Tenete presente questo punto critico: il ripristino della Cina come società civilizzata non è avvenuto a causa di un certo programma centrale, ma della sua assenza. Il fatto che lo stato non è intervenuto ha condotto alla prosperità. Di nuovo, non è stata una politica o una costituzione o una legge a fare la differenza. Non c'è stato un passaggio da un governo di tipo comunista ad uno stato-guardiano notturno. Dal momento che lo stato ha abbandonato i suoi avamposti a causa dell'opposizione e del disprezzo pubblico, la società ha potuto fiorire.
Ma lo stato non è mai andato via. È solo che le sue depredazioni sono state sporadiche e imprevedibili. Se la storia avesse preso un corso migliore, lo stato centrale si sarebbe dissolto del tutto, e la legge si sarebbe devoluta ad un livello massimamente locale. Tristemente per i cinesi, lo stato ha resistito nella sua vecchia struttura, proprio mentre il settore privato si è sviluppato sempre di più. Lo stato aveva ancora la sua mano nelle grandi industrie come l'acciaio e l'energia e, naturalmente, controllava il settore bancario.
Il governo non è mai diventato buono (un'impossibilità). Era ed è cattivo. Era soltanto meno cattivo che nel passato, perché faceva di meno. Ma tutti gli stati stanno in attesa di una crisi. Il terremoto nel sud-ovest ha fornito una grande giustificazione per l'intervento. Non c'è maggior giustificazione per espansione dello stato di una crisi economica – tranne forse la guerra. I funzionari cinesi possono contare sul supporto degli “esperti” occidentali, e la risposta assolutamente disgustosa degli Stati Uniti alla nostra crisi economica ha fornito un modello terribile per il mondo. Pensateci: il partito comunista in Cina sta ora citando gli Stati Uniti come il motivo principale per il proprio programma per saccheggiare il settore privato ed aumentare il proprio potere a scapito del paese.
Questo è quel che si dice essere un faro della libertà in un mondo tenebroso! Invece, gli Stati Uniti stanno contribuendo a spegnere le luci ed a sostenere i dispotismi decrepiti. Questa è certamente una grande ironia dell'attuale momento politico. Invece di insegnare al mondo la libertà, l'esecutivo unitario recentemente autorizzato degli Stati Uniti sta battezzando varie forme di dittatura.
Non c'è dubbio che la spesa della Cina non migliorerà lo sviluppo economico. Sottrarrà piuttosto 586 miliardi dal settore privato e li spenderà su priorità politiche. Non dimenticate mai che nessun governo ha ricchezza propria da spendere. I soldi devono venire dalle tasse, dall'inflazione monetaria, o dall'espansione del debito che deve essere successivamente pagato. E le scelte di spesa pubblica saranno sempre poco economiche rispetto a come la società userebbe quella ricchezza. Il che vuol dire che i soldi saranno sprecati.

Ma la spesa non stimolerà gli investimenti? Può provocare piccoli boom locali, ma saranno temporanei. Anche se la nuova spesa causerà una risposta di spesa da parte degli investitori e dei consumatori, questa è una prova in più di un uso poco economico di risorse limitate. Se i soldi sono usati per sostenere aziende in fallimento, questo è particolarmente dannoso poiché è un tentativo di ignorare le realtà del mercato, un tentativo con una possibilità di riuscita simile al provare a vincere la gravità lanciando delle cose in aria.
La natura dello stato – ed il centro della spiegazione razionale per la sua esistenza – è la convinzione che si erga al di là e sopra la società, per correggere i fallimenti del mercato e degli individui. Una presunzione di superiorità è al cuore stesso dello stato, sia minimo che totalitario. Chi può dire quando e dove esso dovrebbe intervenire? Bene, pensateci. Se lo stato è inerentemente più saggio e superiore rispetto alla società, capace di giudicare cosa sta funzionando e cosa no, lo stato da solo è inoltre nella posizione per decidere quando dovrebbe intervenire.
Non c'è nessun governo liberale per natura, disse Ludwig von Mises. Questa è la grande lezione che chi sostiene il “governo limitato” non ha mai imparato. Se date al governo ogni lavoro da fare, presumerà di avere il diritto di controllare il proprio comportamento e quindi, inevitabilmente, di abusare il proprio potere. Questo è vero in Cina ed è vero negli Stati Uniti.
È stata la scienza dell'economia ad aver scoperto per prima l'incapacità radicale dello stato di fare qualsiasi miglioramento nell'ordine sociale. Invocare l'economia come ragione perché il governo saccheggi e depredi in nome della “stimolazione degli investimenti” è un ribaltamento della scienza. Stimolare qui e là e dappertutto equivale ad una diminuzione della libertà, della sicurezza della proprietà, e della prosperità.
È famoso l'elogio che Keynes fece delle politiche economiche naziste nell'introduzione all'edizione tedesca del suo libro peggiore, la Teoria Generale. Dopo un secolo di orrori, gli uomini e le donne libere in Cina, negli Stati Uniti e nel mondo certamente meritano qualcosa di meglio.

Articolo da: http://gongoro.blogspot.com/

martedì 18 novembre 2008

lunedì 17 novembre 2008

Inflation...

sabato 15 novembre 2008

Maddaloni: Meno partiti e mercato


Maddaloni: Meno partiti e mercato
E’ di questi giorni la notizia che il sindaco di Maddaloni ha annunciato le dimissioni, anche se per avere conferme dobbiamo attendere una ventina di giorni, ma certo è che il problema politico di questo direttivo di diessini e margheritini è divenuto un Problemone. Fatto sta che forse se tutto viene confermato si andrà alle elezioni, ed ecco, già sento alzare proposte di nuove alleanze e di liste civiche dirette dai ‘’classici’’ e nessuna proposta strettamente politica ed economica. Maddaloni è una città che potrebbe divenire qualcosa di buono, certo ora non lo è per niente, ma solo se tutto inizia a girare su due paroline molto conosciute, poco capite e mai applicate: Mercato & No Partiti. Si parlo proprio di mercato, quel mercato che fa paura tanto ai comunisti che in questa città hanno sostenuto proprio Farina. Parlavo di Mercato, si, esistono tanti negozi , piccole attività commerciali e imprenditoriali e il nostro compito deve essere quello di capire come far girare l’economia al miglior modo (compito nostro, lasciamo perdere i politici).
La questione si articola in due momenti: 1) capire dov’è infiltrata la camorra e sostenere quei imprenditori che lottano contro di essa, 2) Fondamentale! Forte politica di detassazione e libertà imprenditoriale.
Ecco Maddaloni per vivere ha bisogno di economia, di mercato non di partiti, se si andrà alle elezioni la miglior scelta è l’astensione, questo comune meno governa meglio è. Stiamo a vedere fin dove il clientelismo è intrinseco in questa città.
Di problemi ce ne sono ma quello che voglio far passare è che i politici di questa città sono delle non risorse e certamente non aiutano per niente le aziende e lo sviluppo imprenditoriale, non votiamoli e diveniamo protagonisti, ecco di cosa ha bisogno Maddaloni.
Esprimendo pubblicamente la mia gioia per la ‘’caduta’’(forse) di Farina, rialzo la questione dell’anagrafe degli eletti…? Non ne ho sentito parlare per niente.
Meno Stato, Libero Mercato e un po’ di sana pace, ecco cosa chiedo a Maddaloni.
Un saluto libertario,
Domenico Letizia.

Pupia tv citando il mio articolo: http://www.pupia.tv/maddaloni/notizie/00075.html

MADDALONI. "E’ di questi giorni la notizia che il sindaco di Maddaloni ha annunciato le dimissioni, anche se per avere conferme dobbiamo attendere una ventina di giorni, ma certo è che il problema politico di questo direttivo di diessini e margheritini è divenuto un problemone".

Così esordisce Domenico Letizia, del Movimento Fiamma Libertaria, nel commentare la crisi politico-amministrativa a Maddaloni. "Forse - continua - se tutto viene confermato si andrà alle elezioni, ed ecco, già sento alzare proposte di nuove alleanze e di liste civiche dirette dai 'classici' e nessuna proposta strettamente politica ed economica. Maddaloni è una città che potrebbe divenire qualcosa di buono, certo ora non lo è per niente, ma solo se tutto inizia a girare su due paroline molto conosciute, poco capite e mai applicate: Mercato & No Partiti. Si, parlo proprio di mercato, quel mercato che fa paura tanto ai comunisti che in questa città hanno sostenuto proprio Farina. Parlavo di Mercato, si, esistono tanti negozi, piccole attività commerciali e imprenditoriali e il nostro compito deve essere quello di capire come far girare l’economia al miglior modo (compito nostro, lasciamo perdere i politici)".
Due sono gli obiettivi da centrare, secondo Letizia: "Sostenere gli imprenditori che lottano contro la camorra e attuare una forte politica di detassazione e libertà imprenditoriale".
"Maddaloni per vivere ha bisogno di economia, di mercato non di partiti, - aggiunge l'esponente del Mfl - se si andrà alle elezioni la miglior scelta è l’astensione, questo comune meno governa meglio è. Stiamo a vedere fin dove il clientelismo è intrinseco in questa città. Di problemi ce ne sono ma quello che voglio far passare è che i politici di questa città sono delle 'non risorse' e certamente non aiutano per niente le aziende e lo sviluppo imprenditoriale, non votiamoli e diveniamo protagonisti, ecco di cosa ha bisogno Maddaloni". Esprimendo "gioia per la caduta (forse) di Farina", Letizia risolleva la questione dell’anagrafe degli eletti: "Non ne ho più sentito parlare, come mai?".

giovedì 13 novembre 2008

Libera Impresa: l’antidoto alla plutocrazia corporativa


Articolo da: http://rantasipi.wordpress.com/

Un libertario politico, secondo la definizione diffusa, è colui il quale vuole ridurre drasticamente il ruolo dello Stato nella vita sociale umana, al fine di massimizzare la libertà individuale di pensiero, di azione e di associazione. Il naturale corollario dell’anti-statalismo libertario è la difesa del libero mercato in ambito economico. Molti libertari e non pochi conservatori, almeno nei paesi anglofoni, ritengono di essere convinti fautori della libera impresa. Eppure questa difesa è spesso piuttosto selettiva e timida, per non dire altro.Libertari e conservatori per il libero mercato danno voce all’opposizione verso le imprese statalizzate, i servizi di assistenza sociale e la sanità pubblica, gli istituti educativi sovvenzionati e gestiti dallo stato, gli uffici e le agenzie di controllo, come quelli che regolano il mondo del lavoro, le relazioni tra i gruppi razziali, etnici e di genere, o quelli decidono in materia ambientale.Tra le molte critiche libertarie, conservatrici o di libero mercato sugli interventi da parte dello Stato nella società, mancano, stranamente, quelle sulla miriade di modi in cui il governo agisce per assistere, tutelare e, quindi, imporre a titolo definitivo, un ordine economico mantenuto per il beneficio delle élites plutocratiche ad esso politicamente collegate. Naturalmente, il riconoscimento di questo fatto ha indotto alcuni a sinistra a fare facile ironia sui libertari, a cui spesso si riferiscono, non proprio affettuosamente, definendoli “repubblicani che si drogano”, o “conservatori permissivi con i gay”, e altri cliché simili.Alcuni sostenitori della libera impresa risponderanno a tali accuse dichiarando indignatamente la loro opposizione ai tentativi dello stato di salvare dalla bancarotta le corporazioni o di sovvenzionare le imprese con l’apparente scusa della ricerca e dello sviluppo.Tuttavia, per amore di sostenere un ordinamento economico dominato dalle corporazioni, tali difese sottostimeranno spesso il grado in cui lo stato interviene per creare deformazioni nel mercato. Tali distorsioni derivanti da una pletora di interventi includono non solo bailout e sovvenzioni, ma anche la fittizia infrastruttura giuridica del “soggetto” corporativo, la responsabilità legale limitata, i contratti collettivi, gli appalti pubblici, i prestiti, le garanzie, l’acquisto di beni, il controllo dei prezzi, i privilegi normativi, le sovvenzioni dei monopoli, le tariffe protezionistiche e le politiche commerciali, il diritto fallimentare, l’intervento militare per ottenere l’accesso ai mercati internazionali e per proteggere gli investimenti stranieri, la regolamentazione o il divieto di attività lavorative organizzate, l’esproprio per pubblica utilità, la tassazione discriminatoria, ignorando infine i reati societari e innumerevoli altre forme di favori e privilegi imposte dallo stato.
Forse, il regalo decisivo dello stato all’attuale ordine corporativo è stato ciò che Kevin Carson definisce “la sovvenzione della storia”, un riferimento al processo attraverso il quale gli abitanti indigeni ed i possessori di proprietà terriere furono originariamente espropriati durante il corso della costruzione delle società tradizionali feudali e la successiva trasformazione del feudalesimo in ciò che è ora viene chiamato “capitalismo”, ovvero le società corporativiste e plutocratiche che ci ritroviamo oggi.
Contrariamente ai miti a cui alcuni credono, inclusi molti libertari, l’evoluzione del capitalismo a partire del vecchio ordine feudale non è stata quella in cui la libertà ha prevalso sul privilegio, bensì quella in cui il privilegio si è affermato in nuove e sofisticate forme. Come spiega Carson:
Ci sono due modi in cui il Parlamento potrebbe avere abolito il feudalesimo e riformato i titoli di proprietà. Potrebbe aver trattato i diritti correnti al possesso dei contadini come veri e propri titoli di proprietà nel senso moderno, e quindi abolito le loro rendite. Ma ciò che fece realmente, fu invece trattare i “diritti di proprietà” artificiali delle aristocrazie terriere, nella teoria giuridica feudale, alla stregua di reali diritti di proprietà come li intendiamo oggi; le classi latifondiste ebbero pieno titolo giuridico e i contadini furono trasformati in usufruttuari a tempo determinato senza che alcuna restrizione sulle rendite potesse essere addebitata …
Nelle colonie europee in cui già viveva una vasta classe contadina, gli stati talvolta garantivano titoli quasi feudali alle élites terriere consentendo loro di accumulare rendite grazie a chi già viveva e coltivava la terra; un buon esempio è il latifondismo, che tutt’oggi prevale in America Latina. Un altro esempio è l’Africa orientale britannica. L’autorità coloniale cacciò i contadini locali e sottrasse loro la parte più fertile del Kenya, il venti per cento dell’intero paese, in modo che il terreno potesse essere utilizzato dai coloni bianchi come pagamento-coltivazione (ovviamente, utilizzando il lavoro dei contadini cacciati, obbligati a lavorare la propria ex-terra). Quanto a coloro che rimasero sulla propria terra, essi furono “incoraggiati” ad inserirsi nel mercato del lavoro a salario grazie ad una rigida tassa che doveva essere pagata in contanti. Moltiplicate questi esempi per centinaia di volte e otterrete un briciolo della rapina su grande scala avvenuta negli ultimi 500 anni.
… I proprietari delle fabbriche non erano esenti da colpe in tutto questo. Mises sosteneva che gli investimenti in capitali su cui il sistema industriale è stato costruito in gran parte provenivano dal duro e parsimonioso lavoro di operai che risparmiarono i propri guadagni come capitale d’investimento. In realtà, tuttavia, essi furono piccoli partner dell’élite terriera, con gran parte dei loro investimenti di capitale provenienti sia dall’oligarchia terriera Whig, sia dai frutti del mercantilismo praticato oltremare, dalla schiavitù e dal colonialismo.
Inoltre, i datori di lavoro dell’industria erano soggetti a severe misure autoritarie da parte del governo al fine di tenere sotto controllo i lavoratori e ridurre il loro potere contrattuale. In Inghilterra le leggi di insediamento agivano come una sorta di sistema di passaporto interno, impedendo ai lavoratori di viaggiare al di fuori della loro circoscrizione natale senza il permesso del governo. Pertanto ai lavoratori fu impedito di “votare con i piedi”, alla ricerca di posti di lavoro più remunerativi. Potreste pensare che ciò sarebbe andato a svantaggio dei datori di lavoro nelle aree meno popolate, come Manchester e altri settori industriali del nord. Ma non temete: lo Stato corse in aiuto dei datori di lavoro. Poiché ai lavoratori era vietato migrare di propria iniziativa alla ricerca di una migliore retribuzione, i datori di lavoro erano esonerati dalla necessità di offrire salari sufficientemente elevati per attirare gli agenti liberi; al contrario, furono messi nelle condizioni di “assumere” lavoratori venduti all’asta dalle autorità della Legge dei Poveri della circoscrizione nei termini stabiliti dalla collusione tra autorità e datori di lavoro.


La nazione centroamericana di El Salvador fornisce un ottimo esempio del modo in cui “il capitalismo realmente esistente” è nato. Il popolo indigeno di El Salvador, conosciuto come indiani Pipil, venne sottomesso nei primi anni del sedicesimo secolo dai conquistadores spagnoli. Non fu prima del 1821 che El Salvador ottenne la propria indipendenza dalla Spagna, per poi successivamente diventare una nazione indipendente nel 1839. Il sistema della proprietà terriera nella società salvadoregna era, sul finire del diciottesimo secolo, originariamente comunitario, con diritti di proprietà relegati alle singole città e villaggi Pipil. I prodotti agricoli primari forniti dai contadini erano bovini, indigo, mais, fagioli e caffè. I Pipil essenzialmente praticavano una sorta di lavoro autonomo-collettivo.
Come il mercato internazionale del caffé si estese, alcuni fra i più ricchi e potenti dei commercianti e proprietari terrieri, iniziarono a fare pressione sul governo di El Salvador affinché intervenisse sulla struttura economica della nazione, al fine di rendere l’accumulo della ricchezza personale più rapido mediante l’istituzione di più grandi piantagioni private e attraverso una maggiore irregimentazione della forza lavoro. Di conseguenza, il governo iniziò a distruggere il sistema tradizionale dei diritti di proprietà detenuti da città e villaggi, al fine di stabilire singole piantagioni di proprietà di quelli provenienti dalle classi privilegiate che già possedevano i mezzi di acquisizione del credito. Questo cambiamento fu attuato in diverse fasi. Nel 1846, ai proprietari terrieri con più di 5.000 piante di caffé veniva concesso per sette anni l’esonero dal pagamento dei dazi sull’esportazione e dal pagamento di imposte per un periodo di dieci anni. Le piantagioni di proprietà del governo salvadoregno furono anche trasferite ad individui privati collegati politicamente. Nel 1881, i diritti terrieri comunali posseduti per secoli dai Pipil furono revocati, rendendo l’autosufficienza per gli indiani impossibile. Il governo successivamente rifiutò di concedere anche appezzamenti di sussistenza ai Pipil non appena El Salvador passò sotto il controllo dei grandi proprietari delle piantagioni.
Questa escalation di repressione economica si scontrò con la resistenza e cinque diverse ribellioni contadine si verificarono durante la fine del diciannovesimo secolo. Dalla metà del ventesimo secolo, le piantagioni di caffé salvadoregne, chiamate fincas, producevano il novantacinque per cento delle esportazioni del paese ed erano controllate da una piccola oligarchia di famiglie proprietarie terriere.
La frase “mezzi l’acquisizione di credito” del precedente paragrafo è particolarmente significativa in quanto lo scopo del controllo statale sul sistema bancario e di emissione di denaro serve a limitare selettivamente la fornitura di linee di credito, e ciò a sua volta rende l’imprenditorialità inaccessibile alla maggioranza della popolazione in generale. Infatti, Murray Rothbard sosteneva che i banchieri come classe “sono intrinsecamente propensi allo statalismo”in quanto essi sono generalmente coinvolti in pratiche sbagliate, come la riserva frazionaria del credito, che porterà successivamente alle richieste di assistenza da parte dello Stato, o perché derivano gran parte del loro business dal coinvolgimento diretto con lo Stato, per esempio, attraverso la sottoscrizione di titoli di Stato. Pertanto, la classe bancaria diventa il braccio finanziario dello Stato non solo per sottoscrivere specificamente le attività dello Stato, come la guerra, il saccheggio e la repressione, ma anche servendo a creare e a mantenere una plutocrazia formata da uomini d’affari, produttori, élites politicamente collegate e altri, in grado di ottenere l’accesso alla limitata fornitura di credito nel contesto delle distorsioni del mercato generate dal monopolio dello Stato sulla moneta. Il processo mediante il quale il “capitalismo”, come è effettivamente praticato nei moderni paesi sviluppati per mezzo di una partenership tra le forze satali e del capitale, piuttosto che attraverso un vero e proprio libero mercato è già stato, molto brevemente, descritto. Resta la questione del modo in cui questo rapporto è stato successivamente mantenuto nel corso degli ultimi due secoli. Il fondamentale studio di Gabriel Kolko sullo storico rapporto tra Stato e capitale fa risalire lo sviluppo di questa simbiosi dall’America del “complesso ferroviario statale” di metà del XIX secolo attraverso la presunta “riforma” della cosiddetta Progressive Era, alla cartelizzazione del lavoro, dell’industria e del governo per mezzo del New Dealdi Franklin Roosevelt. In ogni fase dello sviluppo di questo capitalismo di stato americano, i membri della “classe capitalista” - banchieri, industriali, costruttori, imprenditori - essendone direttamente coinvolti, spingevano inflessibilmente per la creazione di un’economia gestita dallo stato il cui effetto sarebbe stato quello di scudo verso i concorrenti più piccoli e meno collegati politicamente, di cooptare i sindacati e generare una fonte di protezione monopolistica e un’entrata libera da costi da parte dello Stato. Simili, se non identici, paralleli si possono trovare nello sviluppo del capitalismo di Stato negli altri paesi moderni.
Infatti, i paralleli possono anche essere tracciati tra le strutture del capitalismo di Stato contemporaneo e il feudalesimo storico, in quanto il governo dell’Alto Medio Evo è stato trasformato dalla sua prima identificazione con una persona specifica o più persone, in un’entità corporativa dotate di una vita ed un’identità proprie oltre a quelle dei suoi singoli membri individuali.
Al di là di questo processo di trasformazione da governo personale a governo societario, l’evoluzione di un sistema di privilegio di stato-capitalista che ha soppiantato il privilegio feudale, la crescente interazione e co-dipendenza tra le élites plutocratiche e i servitori dello Stato e una più ampia integrazione del lavoro organizzato, grazie alla democrazia di massa, ha generato gruppi di interesse politico e un’espansione senza precedenti del settore pubblico che fece emergere un ordine politico-economico che si potrebbe definire “nuova signoria”. Queste “nuova signoria,” è la moltitudine delle entità burocratiche che mantiene un’identità istituzionale propria, anche se gli individui al suo interno possono cambiare con il passare del tempo, ed esiste in primo luogo per il bene della propria auto-conservazione, a prescindere dalle finalità originarie per cui esse stesse furono apparentemente istituite. La “nuova signoria” può comporsi di enti istituzionali che agiscono di diritto in qualità di armi dello Stato, come gli uffici pubblici, la polizia e le altre agenzie giudiziarie, i servizi sociali statali o le strutture educative, o possono comprendere armi de facto dello Stato, come ad esempio le banche e le imprese la cui posizione di privilegio, anzi, la cui esistenza stessa, dipende da un intervento statale.Oltre all’ordine interno di questo stato-capitalista è emerso un ordine superiore internazionale radicato principalmente nella classe capitalista di stato americana e nella classe dei suoi partner-junior di determinate altre nazioni sviluppate. Ecco come Hans Hermann Hoppe descrive questo accordo:
In una prospettiva globale, inoltre, l’umanità è più vicina che mai all’istituzione di un governo mondiale. Anche prima della dissoluzione dell’Impero sovietico, gli Stati Uniti avevano conquistato l’egemonia sull’Europa occidentale e sui paesi affacciati sul Pacifico, come indicato dalla presenza di truppe americane e di basi militari, dal ruolo del dollaro americano come ultima moneta di riserva internazionale e dal sistema della Federal Reserve come ultima fonte si credito per l’intero sistema bancario occidentale, nonché da istituzioni come il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale del commercio. Inoltre, sotto l’egemonia americana, l’integrazione politica dell’Europa occidentale ha compiuto costanti progressi. Con la recente istituzione di una Banca centrale europea e una moneta unica europea (EURO), l’Unione europea è prossima alla completa unità politica. Allo stesso tempo, l’Accordo di libero scambio nordamericano (NAFTA) rappresenta un passo significativo verso l’integrazione politica del continente americano. Con la scomparsa dell’impero sovietico e della minaccia militare che rappresentava, gli Stati Uniti sono rimasti l’unica e indiscussa superpotenza militare al mondo e i suoi “migliori poliziotti”.
Questo è ciò su cui il “big business” ha puntato. Un simile imperialismo è agli antipodi dei principi libertari del governo locale e della libera impresa, come poco altro potrebbe esserlo. Finora, in questa discussione, la superficie è stata graffiata solo riguardo la distorsione del naturale processo del mercato, di ciò che esso potrebbe essere stato altrimenti se non fosse intervenuto lo stato e il corrispettivo sistema di regole corporativo-plutocratiche.
Nessuna menzione è stata fatta circa privilegio monopolistico inerente alle leggi sui brevetti e al concetto giuridico di “proprietà intellettuale”. Il ruolo delle sovvenzioni al trasporto nella centralizzazione della ricchezza e la distruzione dei piccoli concorrenti del big business non è stato trattato.
Effettivamente, un esempio pertinente può essere il fatto che senza le sovvenzioni dirette o indirette a sistemi di trasporto come quello aereo, navale o di terra a lunga distanza, necessari per la coltivazione e la gestione dei mercati internazionali, il modello dominante di vendita al dettaglio odierno e i mercati dell’alimentazione commerciale praticati da entità di gargantuesche come Wal-Mart, McDonald, ‘Tesco e altri, sarebbero probabilmente impossibili.

Nessuno ha osato sfidare l’opinione comune per quanto riguarda la legittimità dei titoli di proprietà sulla terra, contrapponendovi opinioni contrarie, come quelle radicate nei principi dell’usufrutto o geoisti. Non vi è stata alcuna discussione, come invece potrebbe esserci, sul ruolo dello stato nella creazione del sottoproletariato delle società contemporanee e delle patologie sociali relative - una situazione le cui radici sono ben più profonde della semplice “cultura della dipendenza” piantate dai conservatori convenzionali e da alcuni libertari.Del ruolo dello Stato nella spoliazione della popolazione agricola indigena agli inizi dello sviluppo capitalista occidentale e nel Terzo mondo contemporaneo si è discusso, ma spoliazioni continuano a verificarsi anche nella società moderna. Le implicazioni di queste intuizioni per la strategia libertaria sono quindi piuttosto profonde. Se il libertarismo deve essere identificato nell’opinione pubblica come l’apologia dello status quo dominato dalle grandi corporazioni e se i libertari procedono come se i “conservatori” apologeti delle grandi imprese fossero i loro alleati naturali, insistendo sul fatto che un mondo libertario sarebbe quello governato da gente del calibro di Boeing, Halliburton, Tesco, Microsoft, o Dupont, allora il libertarismo non sarà mai nulla di più di un’appendice alla sovrastruttura ideologica che le moderne classi intellettuali usano per legittimare il dominio plutocratico.

Tuttavia, se il libertarismo afferma se stesso come un nuovo radicalismo, il polo opposto del “conservatorismo” filo-plutocratico, più radicale di tutto ciò che viene offerto dalla sempre più moribonda e arcaica sinistra, allora il libertarismo può, a ragione, ispirare nuove generazioni di militanti a prendere di mira lo status quo statalista. Il libertarismo può diventare il sistema di pensiero guida per i radicali e i riformatori di tutto il mondo come il liberalismo lo è stato nel diciottesimo e diciannovesimo secolo e come lo è stato il socialismo per le successive generazioni.

Per quanto riguarda la questione di ciò che un’economia liberata dal dominio corporativo, plutocratico e statalista potrebbe effettivamente sembrare, ci si può aspettare che con la rimozione degli ostacoli imposti all’ottenimento del credito, l’imprenditorialità e l’autosufficienza economica (in contrapposizione alla dipendenza dalle burocrazie aziendali e per l’occupazione, le assicurazioni e i servizi sociali) sarebbero simili a quelli in cui l’idea di Colin Ward di una società di “lavoratori autonomi” verrebbe in gran parte realizzata.
Non più l’uomo medio sottomesso alla volontà delle varie Chase Manhattan, Home Depot, General Motors, ‘Tesco o Texaco per la propria sussistenza e sostentamento. Al contrario, egli avrà finalmente acquisito i mezzi per sostenersi economicamente e la dignità di individuo auto-sufficiente in una comunità di pari in cui il privilegio è il risultato del merito e l’uguale libertà è prerogativa inalienabile di tutti.
All’inizio del ventesimo secolo vi erano una serie di movimenti che difendevano il piccolo produttore indipendente e la gestione cooperativa delle grandi imprese, tra cui l’anarco-sindacalismo all’estrema sinistra e il distributismo della destra reazionaria cattolica. Queste tendenze tuttora esistono ai margini esterni del pensiero politico-economico. Non è necessario essere d’accordo con tutti i punti dell’analisi o con ogni proposta avanzata da queste scuole di pensiero per riconoscere gli aspetti libertari della loro visione. Esistono attualmente numerose forme di accordo economico che offrono spunti riguardo cosa le istituzioni produttive post-stataliste e post-plutocratiche potrebbero essere.
Una di queste è la Cooperativa Mondragon Corporation, un gruppo industriale di proprietà dei lavoratori e da essi gestito nella regione basca della Spagna. In vigore dal 1941, le cooperative Mondragon inizialmente istituirono una “banca popolare” del tipo proposto originariamente dal padre dell’anarchismo classico, Pierre Joseph Proudhon, che aiutò lo sviluppo di ulteriori imprese, che oggi ammontano a più di 150 compresa L’Università privata degli Studi di Mondragon. La sua divisione supermercati è la terza della Spagna per numero di punti vendita e la più grande a proprietà spagnola. Ogni singola cooperativa ha un consiglio dei lavoratori proprio, e l’intera federazione di cooperative è disciplinata da un congresso di lavoratori provenienti da diverse imprese. Ancora, un altro esempio molto interessante è la società brasiliana Semco SA. Anche se di proprietà privata, come una struttura a conduzione familiare, la Semco pratica una radicale forma di democrazia industriale. Sotto la guida di Ricardo Semler, che ha ereditato l’azienda dal padre, Semco mantiene una struttura manageriale in cui i lavoratori si autogestiscono e fissano i propri obiettivi di produzione e di bilancio con una retribuzione basata sulla produttività, l’efficienza e sul rapporto costi-benefici. I lavoratori ricevono il 25% per cento dei profitti dalla divisione degli incassi. Il management intermedio è stato sostanzialmente eliminato. I lavoratori hanno il diritto di veto sulle spese della società. Le mansioni dei lavoratori cambiano spesso a rotazione e anche il ruolo del CEO è condiviso da sei persone, compreso il proprietario Semler, che operano sei mesi in qualità di capo esecutivo. L’azienda ora ha oltre 3000 dipendenti, un fatturato annuo di oltre 200 milioni di dollari e un tasso di crescita del quaranta per cento annuo.

Un’economia organizzata sulla base di industrie di proprietà e gestite dai lavoratori, sulle banche popolari, le mutue, le cooperative di consumo, i sindacati anarco-sindacalisti, le imprese individuali e familiari, le piccole aziende agricole e le associazioni artigianali impegnate nella produzione locale per uso locale, le istituzioni caritatevoli volontarie, i land trusts, o i collettivi volontari, le comuni e kibbutzim potrebbero sembrare inverosimili per alcuni, ma non più di quanto - e probabilmente meno - lo sia un’economia industriale moderna tecnologicamente avanzata in cui la classe mercantile è la classe dominante e la classe produttiva è spesso una classe media benestante come sarebbe parsa agli abitanti della società feudale pre-moderna.
Se l’espansione dell’economia di mercato, della specializzazione, della divisione del lavoro, dell’industrializzazione e del progresso tecnologico può portare verso gli obiettivi delle società moderne riguardanti l’eliminazione delle malattie, dell’inedia, della mortalità infantile e della morte prematura, uno può solo chiedersi quale sia l’autentico sistema di libera impresa che si può perseguire e che avremmo già conseguito se non fosse stato per il flagello dello statalismo e relativa plutocrazia.

lunedì 10 novembre 2008

USA: Risultato dei libertarian


I risultati definitivi delle elezioni USA segnano la conferma dello schema bipartitico democratico-repubblicano. Bob Barr per il Libertarian Party non è riuscito ad andare oltre lo 0,4%(quarto risultato di sempre ed il migliore della decade)con circa 490.000 voti’. E’ andata molto meglio ai candidati libertari al Congresso ed alle assemblee statali :spesso e volentieri è stata raggiunta e superata la soglia del 2-3% con punte di oltre il 10.
Per quanto riguarda gli altri presidenziabili d’area, Charles Jay (Boston Tea Party) ha ottenuto circa 2.300 voti nei 3 stati in cui compariva in ballottaggio,Tom Steve (Objectivist Party) raccoglie pocopiù di 1.000 voti tra Colorado e Florida. Infine Ron Paul,presente nel Montana ed in Luisiana ha ottenuto 19.000 consensi,superando di poco il 2% nel primo stato e classificandosi terzo alle spalle dei due principali contenders.
Tempi duri, insomma, per i libertari d’oltreoceano…ma anche certi numeri, così piccoli dinanzi ai milioni di elettori statunitensi, sono testimoni di una realtà che pur fra mille problemi e divisioni interne, è viva, vegeta e pronta a dar battaglia…proprio come il Movimento Libertario da questa parte dell’Atlantico.

sabato 8 novembre 2008

Ritest

Seguendo l'esempio di Riccardo http://www.riccardo-isola.blogspot.com/ ho rifatto il test per vedere a quale partito sono più vicino.
Sarà che sono anarchico o sarà il pensare contemporaneamente che la guerra è un male e che il mercato deve essere libero, che le droghe devono essere libere e legali e che la la detassazione è un bene, che Vicenza deve essere senza basi e che l'Anticomunismo è un pregio, che lo sciopero fiscale è uno dei migliori strumenti per combattere lo stato e contemporaneamente essere anticattolici,lasciare spazio ai conservatori ma essere anticonservatori convinti...fatto sta che i partiti son lontani da me:




Marzo 2009 Astensione? Certamente...(forse)

giovedì 6 novembre 2008

Il nostro nemico, il partito


Una buona lettura da: http://liberteo.wordpress.com/010/
di Samuel E. Konkin III

a cura di Wally Conger

Nel 1935 uno dei pionieri del libertarismo, Albert J. Nock, scrisse la sua fondamentale analisi sulla natura del governo e della società: “Il nostro nemico, lo stato”. Durante gli anni bui del libertarismo, tra la caduta di Benjamin Tucker (nel 1908) e l’ascesa di Murray Rothbard (tra il 1965 e 1970) i principali pensatori libertari avevano messo in guardia gli amici libertà dalla partecipazione nel processo politico, dai cercatori di voti, e dagli assetati di potere. Nock, e il suo discepolo Frank Chodorov, H.L. Mencken, Isabel Patterson, Rose Wilder Lane, Leonard Read e Robert LeFevre assieme cercarono di istruire, illuminare e possibilmente far suonare il campanello d’allarme. Chodorov e LeFevre contribuirono entrambe ad organizzare attivisti libertari: il primo negli anni ‘50, attraverso la Intercollegiate Society of Individualists (ISI), il secondo negli anni ‘60 con la Libertarian Alliance. Tutti erano stati messi in guardia dall’appoggiare i politici, in qualsiasi caso.
Ora, nel 1980, la piaga del libertarismo politico, un assurdo ossimoro basato sull’abolizione delle regole dello stato, ma anche sull’accettazione delle regole di un partito politico – partitocrazia – come capo. I nostri pensatori e saggisti di riferimento hanno finalmente ammesso che ogni attività partitocratica fino ad oggi è stata una frode ed è fallita. Ma il concetto continua a sopravvivere. Questa “eresia” autodistruttiva probabilmente durerà fino a quando lo stato non sarà abolito dall’immaginario dell’uomo, ma può essere confinata nell’immediato futuro ad una minoranza insignificante e priva di influenza, grazie ad un attivismo vigoroso e ad una energica smentita. A questo scopo, per risparmiarci altri vent’anni bui per la libertà, ho scritto questo pamphlet.

Il nostro nemico, lo stato

Per quanti conseguono l’utopia senza speranza di un governo “limitato” (la miniarchia), c’è poco da dire. In breve, lo stato è il monopolio della coercizione, dell’inizio dell’uso della forza. Ogni atto di difesa è conseguente alla sua essenza. Per un libertario l’unica immoralità sociale è la coercizione (le immoralità personali sono problemi degli individui). Di conseguenza lo stato è la monopolizzazione istituzionale di ogni immoralità, male, altruismo, irrazionalità, e/o qualsiasi altro modo hai di chiamarlo nel tuo sistema di pensiero.
A questo punto, ci si deve chiedere se si è maledetti ad obbedire a questo mostro fino a quando accetterà di limitarsi ed abolirsi da solo, e di rimanere complici dei suoi rapinatori e assassini, o se si possa rompere immediatamente con esso (tenendo ben presenti le ovvie minacce per alla vita che ciò comporta) e quindi proseguire una vita senza stato. L’“anarchia filosofica”, gradualista e conservatrice compie la prima scelta; il resto sceglie la via morale. Ma c’è ancora un’altra scelta di fronte a cui si trova un libertario: preferendo l’abolizionismo al gradualismo, si deve scegliere un meccanismo mediante il quale ottenere la società libera. Viene ad essere un mezzo politico o economico? Potere o mercato?

Questione di coerenza

Possono dei mezzi essere incoerenti con il fine che vogliono raggiungere? Può la violenza ottenere la pace, può la schiavitù ottenere la libertà, può la rapina proteggere dal furto? Gli statisti, che perseguono guerra, coscrizione e tassazione dicono di sì. Il libertario risponde di no. Allora perché un anarchico abolizionista persegue mezzi politici per abolire la politica? Il fine del libertario è una società volontaria dove il mercato rimpiazzi il governo, dove l’economia funzioni senza la politica. Lo scopo della politica è il mantenimento, l’estensione e il controllo del potere dello stato. Il mercato non si trova sulla strada del potere.
La coerenza per un libertario non significa astrazione, non significa la non contraddizione di una filosofia, ma la coerenza della teoria con la realtà, dell’ideologia e della pratica, di quello che dovrebbe essere fatto e di quello che viene fatto. Conformarsi alle leggi e alle procedure è necessario per il percorso politico; la psicologia entra in sintonia con il parlamentarismo, la procedura e il compromesso, le coalizioni e i tradimenti, le strette di mano e le pugnalate alla schiena, l’ebbrezza per l’effimera l’approvazione degli altri piuttosto che per la propria realizzazione personale. E’ così che vive chi cerca il successo attraverso lo stato.
Perseguendo direttamente l’anarchia di libero mercato attraverso la contro-economia, la psicologia entra in sintonia con il calcolo di domanda e offerta, l’assunzione di rischi, il commercio con persone che abbiano interessi analoghi – quindi intrinsecamente affidabili, e la soddisfazione per i risultati personali (i profitti) o l’autocorrezione degli errori che hanno portato alla perdita. E’ così che una persona può programmare con successo da sé come vivere nel mercato.
La coerenza, o contro-economia, libertaria e agorista – non soffre di nessuna delle frustrazioni che derivano dalle contraddizioni della politica libertaria – partitocratica. Lo stato perde qualcosa per ogni transazione libera, commessa in violazione o in evasione delle sue leggi, dei suoi regolamenti, e delle sue tasse; mentre guadagna da ogni accettazione delle, e pagamento alle, sue istituzioni. E’ così che l’agorismo crea l’anarchia, e la partitocrazia preserva lo stato.

Il nostro nemico, il partito

Ogni partito “libertario” è immorale, incoerente, antistorico (si vedano le descrizioni revisioniste di partiti similari nel passato: i radicali filosofici, il Liberty Party, il Free Soilers, e molti altri), psicologicamente frustrante ed estremamente controproducente. Un LP può, ancor peggio degli altri, essere il salvatore dello stato.
Si supponga, come nel caso del 1980, che la maggioranza dei voti di cui possono beneficiare i cittadini (come accade negli Stati Uniti ) siano pronti a non votare. E come la contro-economia cresce e le sanzioni dello stato si allontanano, il mostro della fame fiscale barcolla in mezzo alla diserzione dei suoi servitori non pagati, fino al collasso finale. Le Alte Sfere dello stato sono prossime a perdere i loro poteri, i loro privilegi e secoli di guadagni ottenuti con l’ingiustizia. Quando all’improvviso arriva un “L”P a salvarli.
Quelli che volevano cacciare l’esattore delle tasse, ora pagano e tengono al loro privilegio di voto, e cercano di tenere il loro passato pulito per la corsa alla poltrona. Quelli che volevano violare la legge ed evadere le regole ora mantengono il sistema e vanno avanti con esso sperando in un futuro migliore. E quanti vorrebbero evitare o difendersi dai servi dello stato ora “accettano il risultato di elezioni democratiche”.
Considerate il destino di una eroica agorista che, in un primo momento di fiducia degli “amici libertari” abbia incautamente parlato delle sue attività per essere usate da altri, e la sua azione sul mercato nero venga fermata da un libertario il quale sente che “i tempi non sono ancora maturi per la rivoluzione”.
Viene arrestata da un libertario all’interno del sistema per riformarlo – come poliziotto. Viene rinchiusa da un libertario che lavora all’interno del sistema per riformarlo – come secondino. Viene processata da un libertario che lavora all’interno del sistema per riformarlo – come giudice. E viene giustiziata da un libertario che lavora all’interno del sistema per riformarlo – come boia. Così finisce la partitocrazia e la sua logica conclusione.

Il ruolo dell’attivismo


L’agorista – il libertario coerente – ha molte alternative per perdere tempo aiutando lo stato e il suo sistema a conservarsi attraverso la politica. Indubbiamente ci sono premi per molti (anche se non per tutti) nel circuito politico dove le Élite del Potere coprono di ricompense chi avrà meglio cooptato le opposizioni e ne avrà meglio sfruttato il furore rivoluzionario per mantenere lo stato e i suoi privilegi a vantaggio di alcuni. Ma l’agorista può essere ampiamente ricompensato nella contro-economia, sia dal punto di vista materiale che da quello personale, dalla sua abilità imprenditoriale. E c’è un ruolo vitale degli attivisti agoristi, questa cellula tanto acclamata.
Ci sono dieci milioni di contro-economisti nel Nordamerica, e ancor di più nel resto del mondo. Pochi capiscono o hanno mai sentito parlare di una filosofia di vita coerente e morale che potrebbe liberare questi onesti commercianti dai loro residui sensi di colpa che gli intellettuali hanno riversato su di loro. Illuminando e mettendo in comunicazione questi milioni di persone, si avrà una comunità cosciente, efficace e in espansione, radicata tra i malfunzionamenti statalisti, i collassi delle guerre, il terrorismo, l’inflazione galoppante e la burocrazia che abbrutisce. E in breve diventerebbe la società.
Questo è l’obiettivo delle cellule rivoluzionarie agoriste, operatori della contro-economia e teorici libertari. E il movimento della Libertarian Left sta lavorando per costruire questa alleanza. Unisciti a noi. O ricerca la società libera alla tua, coerente, maniera.
Ma non dare mai alcun aiuto al nostro nemico, il partito.

"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )