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martedì 22 gennaio 2008

«Il Sessantotto, la rivincita dei giovani»


Alberoni: la sconfitta dei padri e dei tabù sessuali
Sono passati quarant'anni, ma il Sessantotto continua a far discutere. Quegli anni incredibili che la rivista Time definì «il rasoio che separò definitivamente il passato dal futuro» provocano ancora oggi profonde riflessioni. Quell'anno ha visto fiorire profonde invenzioni oppure ha dato il via a un degrado forse irreparabile? E' stato la svolta necessaria a liberare il costume e la politica dalle reti della vecchia società, oppure ha rappresentato un'epidemia di egualitarismo a tutti i costi, un'ubriacatura demagogica di cui per anni abbiamo pagato le conseguenze? E ancora: è stato l'alba di una nuova società o il soprassalto finale del vecchio mondo? Cosa resta di quegli anni che il leader maximo del Movimento studentesco milanese Mario Capanna, ha definito "formidabili"? Lo abbiamo chiesto a un altro protagonista del Sessantotto, di quel periodo fatto di utopie e di forti tensioni emotive, al sociologo piacentino Francesco Alberoni che nel 1968 era nella tana del lupo, la Facoltà di sociologia di Trento, culla di ideologie che hanno portato da un lato idee anarchiche e libertarie e dall'altro hanno acceso la miccia del terrorismo.
Professore, cosa significa oggi ricordare il Sessantotto?
«Quando si parla di quel periodo non si ricorda il 1968, l'anno che vide alcuni episodi di rivolta studentesca alla Sorbona di Parigi, alla Statale di Milano e a Valle Giulia a Roma; il Maggio Francese ha racchiuso in sé tanti movimenti pacifisti, anarchici, marxisti che si erano sprigionati già alcuni anni prima. Penso al pacifismo americano dei primi anni Sessanta, al messaggio di Martin Luther King, alle lotte contro la guerra in Vietnam, alla rivolta in Italia che prende corpo verso la metà degli anni Sessanta, attraversa le università, le fabbriche e arriva fino al 1977. E poi il megaraduno di Woodstock che è forse l'elemento più rappresentativo del Sessantotto, esprime une delle più grandi trasformazioni dal Dopoguerra agli anni Sessanta: la separazione tra i giovani e gli adulti. Il Sessantotto è il periodo in cui prende corpo l'internazionale giovanile: vengono sconfitti i padri e vengono abbattuti i tabù sessuali».
Come mai si manifesta questa separazione?
«E' il frutto del benessere che prende corpo sul sacrificio. I giovani studiano, vivono la loro condizione senza disagi particolari, cominciano ad assaporare il gusto delle vacanze estive dopo la contestazione nelle università durante l'inverno, c'è aria di cambiamento e dietro al marxismo giovanile c'è in realtà un linguaggio certamente più pregnante. Il rock che porta con sé nuovi miti e nuovi riti: i Beatles, i Rolling Stones, Janis Joplin, Jimi Hendrix e la droga. Dallo spinello all'eroina. E poi questi giovani se ne stanno lontani dalle due chiese dominanti: il Pci da un lato e la chiesa cattolica dall'altro. Questi giovani vogliono una società in cui tutto è permesso, in cui fare l'amore non per procreare ma per godere del proprio piacere. E' questa la vera rivoluzione del Sessantotto, una rivoluzione che proseguirà poi negli anni con il mutamento dei gusti e dei costumi senza perdere mai di vista il ruolo dei giovani».
Ma come: il marxismo, la rivoluzione, la contestazione?
«Vengono avanti intellettuali e filosofi come Adorno e Hockeimer di stampo squisitamente marxista ma anche intellettuali come Herbert Marcuse e Norman Brown, che per altro ho conosciuto personalmente, che teorizzano una sorta di anarchismo che confluisce nel movimento hippy. E gli hippy e Woodstoock rappresentano gli aspetti più interessanti del periodo. Da allora nulla sarà come prima. I giovani si vestiranno in modo diverso dai loro padri, accetteranno la precarietà e il precariato che sono elementi figli dell'Occidente, non faranno a meno della musica, che produce il vero linguaggio rivoluzionario della generazione che ruota attorno al Sessantotto. E saranno le canzoni a ispirare i giovani scrittori e i poeti degli anni Sessanta e Settanta. Non certamente i poeti e gli autori letti e amati dai loro padri. Sulla politica c'è molto da dire. I giovani strizzano l'occhio al Pci ma poi confluiscono nell'infinità di gruppuscoli dell'extrasinistra, da Lotta Continua a Potere Operaio, dal Manifesto al Movimento Studentesco. Si parla di rivoluzione, è vero, c'è la convinzione che l'Italia sia un Paese che finirà come il Sudamerica, si ascoltano gli Inti Illimani, ma alla fine i soli che ciecamente crederanno nella rivoluzione saranno i terroristi delle Brigate Rosse, un autentico disastro per il nostro Paese». Professore, c'è molto disincanto dietro alle sue affermazioni, come mai?
«Ho vissuto quegli anni insegnando all'università di Trento e ho poi studiato i movimenti. Quelli che ruotano attorno al Sessantotto sono movimenti che vanno alla ricerca del piacere, di una vita diversa da quella dei loro padri: certi slogan quali "Tutto il potere all'immaginazione" e "Proibito proibire", hanno attecchito tra i giovani, come dire che il Sessantotto ha avuto una "pars destruens" molto forte e molto pregnante, ma non ha saputo trasformare la protesta, la rivolta, il rifiuto dei padri e della loro morale, in politica costruttiva. E a proposito di politica, occorre sottolineare che i figli del Sessantotto oggi sono un po' dovunque: nel Pd, in An, in Forza Italia, penso a Giuliano Ferrara e a Paolo Mieli, l'attuale direttore del Corriere della Sera. Sono in gran parte classe dirigente, ma il loro potere si basa sugli affari, è privo di forza etica, di una morale. Ecco, credo che bisognerebbe inventare una morale, ma com'è possibile se chi è oggi al potere ha costruito la propria coscienza distruggendo ogni forma di morale?».
Chi sono gli eredi dei giovani del Sessantotto?
«Benché se ne dica , gli eredi sono i ragazzi di oggi, così lontani dal mondo del lavoro, così attaccati al piacere, alle pasticche di ecstasy e alla cocaina, a Vasco e a Ligabue. Non tutto ciò che è stato buttato all'aria allora ha dato buoni frutti, anzi, in molti casi è successo il contrario. Ma,inutile negarlo, dal Sessantotto è nata una società più libera, meno bacchettona ma anche più qualunquista ed egoista, proprio perché figlia del piacere e dell'anarchismo».

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"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )