SITO ANARCOLIBERALE A CURA DI DOMENICO LETIZIA. Laboratorio per un Neo-Anarchismo Analitico che sia Liberoscambista, Volontarista, Possibilista e Panarchico con lo sguardo verso i valori del Liberalismo Classico, del Neo-mutualismo e dell'Agorismo. Un laboratorio che sperimenti forme di gestione solidali, di mercato dencentralizzato e di autogestione attraverso l'arma della non-violenza e lo sciopero fiscale, insomma: Disobbedienza Civile

banner campagna un futuro senza atomiche

The Neolibertarian Network Diventa anche tu Ambasciatore Telethon Italian Blogs for Darfur AIT - Associazione italiana transumanisti
AnarchicA
No TAV

domenica 31 agosto 2008

L'Anarchia funziona anche in strada


Come eliminare gli incidenti? Eliminando i segnali, niente ridicole tasse (come l'Eco Pass milanese) le realtà all'avanguardia in Europa hanno eliminato segnali stradali, ma anche parchimetri e divieti di sosta e accesso assortiti.
"Tutte queste regole del traffico ci privano della cosa più importante: ovvero, del riguardo e della gentilezza. Dimentichiamo di comportarci socialmente”, insegna Hans Monderman, responsabile per il traffico a Groningen e uno dei padri del progetto. “Tanto più sono le regole, meno si sente la responsabilità”. L'ingegner Monderman non è l'ultimo invasato che passa: è un serio ingegnere tedesco che ha passato decenni di attività professionale nello studio della mobilità e soprattutto della sua sicurezza nei centri urbani. La città tedesca di Bohmte adotta una strategia originale per contrastare gli incidenti: eliminare le segnalazioni di stop, e questa tendenza sembra in continua diffusione:
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Scienze_e_Tecnologie/2007/09_Settembre/12/semafori_aboliti.shtml
Questa filosofia affascina le città tedesche e olandesi, forte di queste esperienze, il sindaco di Bohmte Klaus Goedejohann è ottimista: «Il traffico non sarà più dominante».
Alla base del progetto sta la filosofia dello spazio condiviso, un approccio urbanistico in cui si vuole mettere sullo stesso piano pedoni, ciclisti e automobilisti, responsabilizzando i singoli cittadini. L’eliminazione dei semafori e degli alt obbliga tutti i protagonisti della strada a guidare con più cautela, e soprattutto a cercare il contatto visivo, a guardarsi intorno e negli occhi costantemente. Nessuno potrà affidarsi ciecamente a un segnale di via libera o di stop, ma dovrà negoziare le proprie mosse tenendo conto degli altri. Anche perché è ormai assodato che la presenza di semafori, di strisce e simili segnali di per sé non salvaguarda da incidenti. Vi lascio anche questo interessante articolo: http://www.perlasicurezzastradale.org/public/incidenti/Traffico_senza_segnaletica.pdf
Come disse qualcuno a me molto caro: ‘L’ordine è figlio della libertà’, questo sembra funzionare anche sulle strade.

venerdì 29 agosto 2008

mercoledì 27 agosto 2008

Briganti&Liberari su c6 Tv

Ecco l'intervista:

martedì 26 agosto 2008

Liberali nel Pdl? Per favore non diciamo bugie.


Da libertario e da Astensionista (con la ''A'' maiuscola ) non mi occupo, anzi, non mi interessano le caratteristiche e le problematiche del Partito di Berlusconi ( delle questioni interne, perché di danni al paese ne stanno facendo tutti i giorni ) ma c’è una cosa che vorrei porre all’attenzione di voi lettori e che vorrei fosse sinceramente chiaro che il Pdl consideratelo un partito conservatore, clericale, se volete socialista qualcuno dirà senza torti un po’ ‘’fascista’’ ma per favore non definitelo liberale e non provate nemmeno a considerarlo libertario. La mia preoccupazione sta tutta nel difendere il termine e il concetto politico ‘’liberale’’ è assurdo che qualcuno vada a dire in giro che il Pdl è liberale o che è il partito dei liberali. Dirò un’altra cosa che appena detta mi rimangio, considero il Pd con tutti i post e i vetero comunisti che ci sono dentro filosoficamente più liberale del Pdl cosa che come ho detto mi rimangio immediatamente. Credo sia fondamentale per tutti voi che vi considerate liberali veri liberali (non alla Giovanardi che osa definirsi liberale dopo aver pronunciato queste parole degne di un, se mi consentite, demente: ''Se non è lecito inquinare l'ambiente, meno che mai può essere inquinare le persone dentro''), di chiudere con il Pdl. Con questo post spero s’inizi sinceramente a discutere di un divorzio dei liberali dal Pdl, diciamocelo chiaramente i liberali seri non votano il Pdl. L’Italia sta affrontando una serie di divieti che stanno facendo dell’Italia un paese da ex-repubblica socialista, non voglio discutere dei decreti super proibizionisti e illiberali in materia di droga, la deriva fascista in materia di migrazione,la loro accanita difesa per la ''famiglia'', la deriva assistenzialista e statalista (questa c’è sempre stata) in economia del Pdl e non voglio nemmeno sottolineare che un partito come An e gente come la Mussolini con i liberali non c’entrano, parliamo di sicurezza? Un vero libertario come Ron Paul ha detto che chi sacrifica la libertà per la sicurezza non merita né una né l’altra (chi sa che direbbe Paul su Berlusconi), parliamo di politica estera? Ancora guerre e soldi nostri spesi in esercito e armi per far arricchire qualche fabbricante anzi qualche monopolio costruttore di armi, insomma tutte cose degne di partiti completamente illiberali. Diciamocelo chiaro il Pdl con i liberali non c’entra niente!

domenica 24 agosto 2008

Legge, ordine e coprifuoco


Lo stato di polizia – inevitabile e bramato zenit dell'istituzione statale – si avvicina a ritmo cadenzato, sospinto dalla paura abilmente diffusa, con l'aiuto dei media, dalle parole allarmanti che i politici pronunciano con tono serio e accorato.

In Italia abbiamo già il piacere di assaporare il “senso di sicurezza” procurato dalla visione di militari per le strade, peccato che i rapinatori non sembrino altrettanto impressionati e continuino il loro lavoro: del resto, se qualcuno prova a difendersi, come il tabaccaio di Aprilia si ritrova indagato per omicidio volontario, un deterrente niente male per l'autodifesa. I soldatini nel frattempo hanno il loro daffare a sorvegliare i tossici nel parco mente si fanno le pere, anche loro ben poco interessati dai marziali osservatori. È destino che in Italia tutto finisca in commedia:

«Dottore, come ci comportiamo con questo?» chiede una giovane recluta al funzionario di polizia. Sta guardando una donna accovacciata, concentrata solo sulla siringa e sul buco da trovare in un braccio sinistro martoriato, incurante dei flash dei fotografi e della ventina di persone che la circondano. «La identifichiamo e la allontaniamo» è la risposta. «Sì, ma subito o aspetto che finisca?»
Altrove, le iniziative in materia di sicurezza sono un tantino più preoccupanti, ma sempre accompagnate da proclami risoluti e appassionati: “Dobbiamo farlo perché non possiamo e non dobbiamo tollerare che gente innocente, in particolare i bambini, diventino vittime.” Con questa frase, Eddie Perez, il sindaco di Hartford, capitale del Connecticut, ha giustificato il coprifuoco dalle nove di sera alle cinque del mattino imposto ai minori di 18 anni in tutta la città.

A Helena sulle rive del Mississippi in Arkansas, in alcuni quartieri vige invece un coprifuoco di 24 ore per tutti. La polizia lo sta facendo rispettare, con gli occhiali night-vision a infrarossi e fucili militari M16, ultima opzione – secondo le autorità – per frenare un crescendo di violenze nella zona. Ma negli USA pare ormai che il coprifuoco sia uno strumento normale, soprattutto d'estate, per mantenere la sicurezza: per la durata delle vacanze scolastiche, per esempio, Baltimora ha un coprifuoco dalle undici di sera (mezzanotte il venerdì ed il sabato) per i ragazzi sotto i 17 anni. Chi lo viola viene accompagnato ad una scuola finché un genitore non va a prenderli.

Funzioneranno questi sistemi militari? È la domanda sbagliata: in realtà il fatto di ricorrere a simili espedienti è già il segno di un fallimento irreparabile. Se lo stato non è in grado di garantire un livello minimo di sicurezza senza impiegare metodi da zona di guerra, se l'unica risorsa a cui può ricorrere è di rinchiuderci in casa, praticamente agli arresti domiciliari, ebbene, questa è la prova che lo stato ha fallito nel fornire il servizio di cui si è arrogato il monopolio, impedendo per sovrappiù al cittadino di difendersi da solo.

Ma la verità è forse ancora più semplice: lo scopo vero della sicurezza pubblica – meglio: delle forze del dis/ordine – non è mai stato la sicurezza nostra, dei privati cittadini, ma quella loro, dei governanti. E quella, una volta che ci avranno chiusi in casa e disarmati, l'avranno garantita perfettamente.

Articolo da: http://gongoro.blogspot.com/

venerdì 22 agosto 2008

Evoluzione del pensiero: gli Anarchici Analitici



di Wiliam Longhi

Il manifesto, è firmato tra gli altri da Fabio Massimo Nicosia e Luigi Corvaglia. Nascono per uno scopo ben preciso, a quanto pare, quello di tornare alla radice dei concetti fondanti del pensiero anarchico, per comprendere quali possano essere gli sviluppi più logici e coerenti di fronte alle sfide di oggi. Nascono quindi da una insoddisfazione di fondo sull’evoluzione dell’anarchia che ha preso indirizzi considerati inadeguati e persino incompatibili con i principi storici. Da un lato abbiamo in effetti le forme più aggiornate dell’anarco-comunismo e dell’anarco-sindacalismo declinate in direzione no-global e, a volte, anche vagamente eversiva.
_

Eccoli, sono nati. Sono gli anarchici analitici. Anarchè? Sissignore, si chiamano proprio così, anarchici analitici. Il luogo dell’annuncio formale è il forum del sito di www.politicaonline.net, dove alla voce circoli politici si può trovare lo spazio di discussione degli Anarchici, e un post datato 29/08/2006 che presenta il relativo manifesto, firmato tra gli altri da Fabio Massimo Nicosia e Luigi Corvaglia. Gli anarchici analitici nascono per uno scopo ben preciso, a quanto pare, quello di tornare alla radice dei concetti fondanti del pensiero anarchico, per comprendere quali possano essere gli sviluppi più logici e coerenti di fronte alle sfide di oggi. Nascono quindi da una insoddisfazione di fondo sull’evoluzione dell’anarchia che ha preso indirizzi considerati inadeguati e persino incompatibili con i principi storici. Da un lato abbiamo in effetti le forme più aggiornate dell’anarco-comunismo e dell’anarco-sindacalismo declinate in direzione no-global e, a volte, anche vagamente eversiva. Dall’altro lato, si è affermata in Italia la versione più radicale del liberalismo classico, cioè l’anarco-capitalismo, antistatalista fino all’estremo in qualunque settore della vita pubblica, ma tendenzialmente incline a sostenere una legislazione conservatrice sui diritti civili. Questa biforcazione sul cammino della filosofia politica anarchica ha determinato la marginalizzazione delle sue correnti favorevoli, al contempo, al libero mercato e ai diritti civili, e quindi coerentemente libertarie in tutte le dimensioni della vita personale. I numi tutelari di questo nuovo movimento sono individuati dagli stessi promotori in alcuni esponenti di lusso dell’anarchismo individualista americano, come Benjamin Tucker, Josiah Warren e Lysander Spooner, ma anche in socialisti libertari di matrice culturale europea come Proudhon o Max Stirner. L’individualismo romantico ottocentesco viene quindi recuperato, nella speranza di potervi trovare gli strumenti utili per contrastare, da una posizione di anarchismo rinnovato e rinsaldato nei suoi principi cardine, i moderni centri di potere, pubblici e privati. È un anarchismo antistatalista, ma anche po’ sociale e antimonopolista; è antiautoritario, ma anche un po’ comunitario. È il tentativo di coniugare libertà economiche e libertà civili, rispolverando però una sensibilità anarchica forse più europea che statunitense. Ecco quindi che, in quest’ottica, il libero mercato dovrebbe essere difeso dalle grandi concentrazioni industriali, rifiutando l’identificazione tra capitalismo e libero mercato. E la dignità della persona dovrebbe tornare ad essere il fulcro della riflessione anarchica, consentendo la critica di qualunque forma di coercizione, sia essa economica, culturale, politica o religiosa. Si prospetta, quindi, un movimento di pensiero a metà tra l’anarco-collettivismo, incapace di liberarsi dall’abbraccio fatale con lo statalismo e l’autoritarismo; e l’anarco-capitalismo le cui tesi armoniciste inducono ad ignorare i pericoli per l’individuo derivanti dalla concentrazione di potere in mani private e i conseguenti fenomeni di manipolazione delle coscienze e di sfruttamento del lavoro dipendente. Se si aggiunge che la difesa del libero mercato secondo le tesi anarco-capitaliste, più che indirizzata alla libertà personale in se stessa, pare invece profondamente funzionale al ripristino di un ordine sociale di carattere conservatore (si parla di conservatorismo culturale), si può ben supporre che l’obiettivo primario delle future lotte degli anarchici analitici saranno proprio gli esponenti nostrani dell’anarco-capitalismo. Per saperne comunque di più, e certamente in maniera più corretta, si consiglia di dare un’occhiata ai testi di Luigi Corvaglia, come “Ripensare l’anarchia”, o La “Sovranità dell’individuo – Saggio sulla Libertà in America”. Di Fabio Massimo Nicosia, invece, è opportuno ricordare le pubblicazioni di riferimento come “Il Sovrano Occulto” Franco Angeli, e “Beati Possidentes”, Liberilibri, cui dovrebbe seguire a breve un saggio che completa il trittico (“Il Dittatore libertario”, o qualcosa di simile), a chiusura di un percorso intellettuale piuttosto travagliato, che ha visto Nicosia passare dal gruppo dei primi anarco-capitalisti, con Piombini, Vitale, Iannello e Bassani, alla fondazione, in questi giorni, dell’anarchismo analitico con Corvaglia, in polemica crescente con l’evoluzione catto-conservatrice di buona parte del libertarismo italiano. Questo sviluppo “paleo” sta del resto preoccupando anche liberali vicini al libertarismo dell’Ibl, come si evince da dichiarazioni come quelle fatte da Raimondo Cubeddu, che ha spesso parlato, a questo proposito, di liberalismo ridotto a versione secolarizzata del cattolicesimo.
Che forme prenderà questo movimento in futuro è difficile dirlo. Sul forum di riferimento si parla, anche se con timidezza, della possibilità di dare vita ad un centro studi, o qualcosa di simile. Probabilmente lo scopo è quello di contrapporsi al referente in Italia del pensiero anarco-capitalista e più genericamente libertarian, e cioè l’Istituto Bruno Leoni.
L’intento è senz’altro encomiabile, purché dia frutti anche solo paragonabili a quelli dell’Istituto diretto da Lottieri, Mingardi e Stagnaro, che sforna periodicamente studi di ogni tipo su temi dell’attualità politica, economica e finanziaria, per esprimere giudizi e fare proposte riformatrici concrete. Oddio, il termine “analitico”, a dire il vero, non si addice tanto alla concretezza mostrata invece dal lato destro del libertarismo italiano. Sa molto di profonde e dottissime elucubrazioni, e poco di realismo. Intendiamoci, gli anarchici analitici nascono da esigenze effettivamente sentite da alcune parti del mondo libertario italiano, come la necessità di avere un riferimento, in termini associativi, di ricerca e di proposta politico-culturale, per idee che potrebbero definirsi, citando Piombini, ultra-left-libertarian, e che dovrebbero porsi lo scopo di incidere sulla cultura politica italiana attraverso un libertarismo dalle venature progressiste, e cioè con obiettivi polemici centrati sul capitalismo di stato o assistito dallo stato, sulle forme più gravi di concentrazione capitalistica, oltre che sul fronte delicato delle libertà civili e della ricerca scientifica, combattendo ogni intromissione della religione, delle comunità locali, delle tradizioni conformiste e delle autorità governative nelle sfere più intime della vita delle persone. Un libertarismo a tutto tondo, quindi. Romantico, illuminista e pragmatico.
Un tipo di libertarismo simile a quello che tanto disturbava il maestro dell’anarco-capitalismo americano, Rothbard, che amava parlare di nihilo-libertari per indicare i left-libertarians. Oggi i left-libertarians americani sono guidati da personaggi come David Boaz (autore di “Libertarianism: A primer”) e Clint Bolick, ma le loro posizioni paiono una versione edulcorata e laicizzata dell’anarco-capitalismo. È possibile che l’anarchismo analitico voglia posizionarsi alla sinistra dei left-libertarian americani, e quindi caratterizzarsi per un’anima più antidiscriminatoria, democratica ed egualitaria. Lo si potrebbe dedurre da affermazioni come questa, rilasciata da Corvaglia in un’intervista recente: “A differenza della buona parte dei "libertarians", che ritengono il welfare qualcosa di cui disfarsi senza mezzi termini, noi (su questi temi stiamo lavorando con Nicosia, La Conca e altri) stiamo immaginando una transazione al mercato delle funzioni dello stato sociale che permetta di mantenerne le caratteristiche "democratiche". Fra gli ingredienti di questa ricetta ci potrebbe stare l'idea warreniana del costo come limite del prezzo”. (l’intera intervista a è possibile leggerla su http://salentolibero.ilcannocchiale.it/).
Avremo una versione italiana dei left-libertarian americani? Forse non è questo l’intento di Corvaglia e Nicosia, o forse lo è, ma solo in parte. Eppure, di un libertarismo progressista, che entri in contrasto fruttuoso con l’anarco-capitalismo già esistente e vitale nel nostro paese, sfidandolo sul suo stesso terreno, ma con sensibilità e finalità diverse, c’è senz’altro la necessità. Difficile dire se saranno Corvaglia, Nicosia e soci ad affrontare questa sfida. Le intenzioni, comunque, ci sono tutte.

mercoledì 20 agosto 2008

Reddito di base e giustizia libertaria

Reddito di base e giustizia libertaria:conversazione con Philippe Van Parijs
di Ian Carter


Articolo da: http://tarantula.ilcannocchiale.it/?r=19438


Philippe Van Parijs occupa la cattedra Hoover di Etica Economica a Sociale all'Università Cattolica di Louvain in Belgio. In passato ha studiato a Berkeley e Oxford, ed è stato visiting all'Università Europea a Firenze e alle Università di Manchester, Amsterdam e Wisconsin. Già noto in Italia per il libro Che cos'è una società giusta? (Ponte alle Grazie, Firenze 1995), ha pubblicato recentemente un lavoro, frutto di molti anni di ricerca, che esamina e difende la proposta di un reddito di base universale. Si tratta di Real Freedom for All: What (if Anything) can Justify Capitalism? (Cambridge University Press) che, nel mondo anglosassone almeno, si è già dimostrato un libro fortunato. La promozione del reddito di base è un progetto in cui Van Parijs si è impegnato con entusiasmo nell'ultimo decennio attraverso vari scritti, e la recente crescita di interesse per quest'idea tra economisti e filosofi politici è dovuta in gran parte al suo lavoro. Anche quelli che si oppongono a tale proposta si sono sentiti obbligati ad affrontare gli argomenti di Van Parijs, come testimonia una recente raccolta di saggi di vari autori importanti, curata dallo stesso Van Parijs e intitolata Arguing for Basic Income (Verso, London 1992).
Una delle novità della prospettiva normativa di Van Parijs consiste nel fatto che, benché essa abbia le sue origini in studi di orientamento socialista (vedi, per esempio, il suo Marxism Recycled, Cambridge University Press, 1993, che raccoglie diversi suoi saggi sulla teoria sociale marxista), tale prospettiva è anche motivata dalla convinzione che la sinistra debba prendere sul serio gli argomenti dei libertari. Insieme ai suoi amici della scuola del marxismo analitico (una scuola a cui si sente vicino ma da cui si è sempre differenziato), Van Parijs ha riconosciuto l'importanza della sfida nozickiana alle teorie marxiste dello sfruttamento. Real Freedom for All, infatti, cerca di partire proprio da premesse normalmente considerate centrali al libertarismo: il cosiddetto self-ownership (la proprietà di sé stesso), la massimizzazione della libertà individuale, il non-sfruttamento dei talenti individuali, l'efficienza del mercato. Il fatto di arrivare da simili premesse a conclusioni fortemente redistributive è, in un certo senso, una cosa che accomuna la teoria di Van Parijs e quella di Hillel Steiner (intervistato in Notizie di Politeia, n. 35, 1994). È proprio per attirare la nostra attenzione su tale contro-sfida al libertarismo di destra che Van Parijs chiama la propria posizione, in modo polemico, il "libertarismo vero" (real libertarianism), dove quest'ultimo indica una teoria normativa fondata su un interesse per "la libertà reale di tutti" (the real freedom of all).
Gli argomenti di Real Freedom for All non si collocano esclusivamente al livello dell'analisi concettuale. Benché il libro inizi con le premesse su menzionate, e su queste basi cerchi di individuare una concezione accettabile e coerente della giustizia, è piuttosto come proposta pratica per la realizzazione di tale concezione di giustizia che l'idea del reddito di base entra in gioco - cioè, come il miglior modo possibile, in senso empirico, di garantire la massima libertà a "tutti" (che, nell'interpretazione di Van Parijs, vuol dire massimizzare la libertà di chi ne ha di meno, applicando così il principio del "leximin"). Quindi, un altro fattore che differenzia questo libro da altri studi sulla giustizia è la sua larga portata: esso cerca di arrivare, a partire da un esame al livello più astratto di concetti politici quali 'libertà' e 'giustizia', alla proposta di una politica pubblica al livello più concreto. La nostra conversazione inizia con un esame della tesi centrale di questo importante lavoro, cercando di chiarire i suoi scopi, le sue motivazioni e le sue giustificazioni.

D: Chi vede Real Freedom for All esposto in libreria prova subito un certo fascino, perché la copertina porta una bellissima fotografia di un surfista che viaggia su un'enorme onda azzurra. Forse sarebbe utile se iniziassi spiegandoci il significato di questa fotografia.
R: Nel 1987, John Rawls è venuto a Parigi per una conferenza organizzata in occasione della recente pubblicazione dell'edizione francese di Una teoria della giustizia. Tutti i relatori stranieri erano ospitati nello stesso albergo, e, tra questi, capitò che gli unici ad alzarsi presto fossimo io e Rawls. A questo fatto devo il privilegio di alcuni lunghi tête-à-tête a colazione. Durante queste conversazioni ho potuto sollevare un grande numero di questioni che avevo incontrato leggendo il suo libro. Una di queste questioni riguardava il suo principio di differenza, secondo il quale i vantaggi sociali ed economici allocati a chi sta peggio devono essere massimizzati. Gli ho chiesto se sarebbe corretto dire che un'applicazione rigorosa del principio di differenza - tenendo presente che il principio non riguarda solo il reddito, ma anche la ricchezza, i poteri, e le basi del rispetto di sé - giustificherebbe dare un reddito di base non-condizionato a tutti i cittadini. La risposta di Rawls, molto approssimativamente, era che la sua formulazione iniziale del principio di differenza era coerente con questa mia interpretazione, ma che lui aveva l'intuizione forte che quelli che scelgono di passare l'intera giornata facendo surf nella baia di Malibù non dovrebbero essere assistiti a spese del resto della società. In un articolo successivo, The Priority of the Right and Ideas of the Good (in "Philosophy and Public Affairs", 1988), Rawls ha fatto riferimento ai surfisti di Malibù, per motivare una revisione del principio di differenza - cioè, l'inclusione del tempo libero nella lista dei vantaggi sociali ed economici - una revisione che implica che la giustizia non ci richiede più di sovvenzionare i surfisti. In una conferenza che lui e Amartya Sen mi hanno invitato a svolgere a Harvard nel '90, ho cercato di dimostrare che l'impegno liberale fondamentale di Rawls non gli doveva permettere di emendare il principio di differenza in questo modo, e che anzi, lo costringeva ad adottare una versione che avrebbe giustificato senza incertezza un reddito non-condizionato. Quell'intervento è stato pubblicato successivamente col titolo Why Surfers Should be Fed ("perché bisogna dare da mangiare ai surfisti"), sempre in "Philosophy and Public Affairs", 1991. Una versione molto ampliata e rivista è diventata uno dei capitoli centrali del libro, cosa che ha fatto venire in mente a uno degli editori una proposta per la copertina del libro che io ho immediatamente accettato.
D: Quindi, una proposta centrale del tuo libro è quella di dare un reddito di base, non-condizionato, a tutti i cittadini. Ma perché dici "non-condizionato"? Non dovremmo distinguere tra chi ha bisogno di un reddito di base e chi non ce l’ha, e quindi tra un surfista affamato e un surfista ricco di famiglia?
R: Il tipo di reddito di base incondizionato difeso in Real Freedom for All viene dato tanto ai poveri quanto ai ricchi. Perché preoccuparsi di fare così? Certamente non perché è meglio per i ricchi. Di fatto, non lo è, visto che bisognerà tassare maggiormente i redditi alti per finanziare il reddito di base da pagare anche a quelli che guadagnano redditi alti, lasciandoli in questo modo più o meno allo stesso livello del loro reddito di partenza. Il reddito di base deve essere dato ai ricchi perché questo è meglio per i poveri. La libertà reale che conta non è solo la libertà reale di fare surf. È anche la libertà reale di avere un lavoro. Quindi, è un punto cruciale che i surfisti poveri non debbano trovarsi intrappolati in una situazione di disoccupazione. In un sistema di assistenza solo indirizzata ai poveri, molti di questi non si potrebbero permettere la perdita dell'assistenza unita all'incertezza associata ad un tipo di lavoro, spesso mal pagato e saltuario, a cui potrebbero inizialmente avere accesso. Un reddito di base pagato sia ai ricchi sia ai poveri evita questo difetto cruciale. Allo stesso tempo, risparmia dalla stigmatizzazione connessa all'accertamento della povertà, e quindi assicurerebbe un tasso di reclamo più alto da parte di quelli che ne hanno diritto. Comporterebbe anche un costo amministrativo minore.
D: Rimane, comunque, il caso del surfista che non ha nessuna voglia di lavorare. Al progetto del reddito non-condizionato, una obiezione naturale potrebbe essere questa: che i membri delle società occidentali, incluso, da quanto ho capito, Rawls, sono troppo attaccati all'intuizione profonda che "chi non contribuisce non deve ricevere", per potersi convincere della validità della tua proposta - che sono troppo impregnati, se vogliamo, dall'"etica protestante del lavoro" per poterla accettare. Cosa rispondi a questa obiezione?
R: Ci sono due tipi di repliche, ognuno dei quali può giocare un suo ruolo. Il primo consiste nel cercare di dimostrare, come tento di fare nel capitolo che ho menzionato prima, che non c'è niente di ingiusto nel finanziare un reddito non-condizionato sostanzioso attraverso la tassazione dei guadagni che i lavoratori e i capitalisti fanno nel mercato. Questo perché redistribuire in tal modo non implica appropriarsi del frutto del lavoro e della parsimonia di alcuni per garantire una vita comoda ai pigri e agli scialacquatori. Purché sia prevedibile e sostenibile nel tempo, tale redistribuzione consiste piuttosto nel distribuire in maniera equa e non-discriminatoria le enormi risorse di cui siamo dotati in maniera molto ineguale, nella forma, principalmente, di vantaggi connessi con lavori che non sono accessibili a tutti. Sotto questa luce, la tassazione non è affatto sfruttamento coercitivo, ma semplicemente equo pagamento di una rendita sulle risorse di cui uno si è appropriato.
La seconda replica è del tipo pragmatico e ad hominem, e consiste nel dire che se si crede che la giustizia richieda una distribuzione del reddito proporzionale alla quantità e alla fastidiosità del lavoro, un modesto reddito di base non-condizionato sarebbe un grande miglioramento rispetto alla situazione attuale. In primo luogo, darebbe un reddito diretto a molte persone - casalinghe, per la maggior parte - che attualmente svolgono lavori importanti e ardui senza un proprio reddito. E lo farebbe senza gli effetti perversi di un salario per le casalinghe: quest'ultimo, infatti, rafforzerebbe ulteriormente la divisione dei compiti casalinghi secondo il sesso ("se la pagano per farlo, perché me ne dovrei occupare io?"), e peggiorerebbe la trappola dell'inattività ("non solo avrò il costo dell'asilo per i bambini e il fastidio di andare al lavoro, ma perderò anche il mio salario da casalinga"). In secondo luogo, poiché rafforzerebbe potere contrattuale della gente di bassa qualifica, un reddito di base anche modesto contribuirebbe a ridurre la correlazione positiva tra quanto un lavoro è intrinsicamente attraente e il livello a cui viene pagato. Per queste due ragioni, anche chi crede fermamente che lo sforzo sia l'unico fattore rilevante per la giusta distribuzione del reddito farebbe bene a riprendere in considerazione l'idea del reddito di base come un modo imperfetto ma efficace di approssimare il loro ideale.
D: Nel libro, tu ti descrivi come un "libertario vero". Se ho capito bene, con questa etichetta ti vorresti differenziare sia dai sostenitori di sinistra dello stato sociale, sia dai libertari di destra che vedono come giusti tutti gli esiti del libero mercato. Finisci, allora, per essere al centro, o ci vuole un altro termine per designare la tua posizione?
R: Non sono al centro, ma, piuttosto, in un angolo - se, almeno, le dimensioni ortogonali sono da un lato quanta importanza si dà alla libertà e dall'altro quanta importanza si dà alla situazione di chi sta peggio. Com'è possibile dare la massima importanza alla libertà, se non dicendo che la giustizia richiede di rendere le persone le più libere possibili - non solo formalmente libere, ma realmente libere, e neanche solo come approssimazione o come effetto secondario di un qualche altro obiettivo? E com'è possibile stare più a sinistra di uno che dà una priorità assoluta, nel valutare un regime economico-sociale in termini di giustizia, alla situazione che sarà possibile garantire a chi sta peggio?
D: Soffermiamoci un attimo sul concetto di libertà. Per prima cosa, potresti spiegare la differenza a cui hai appena cennato tra libertà reale e libertà formale?
R: Per descrivere la natura della distinzione dovrebbe bastare l'esempio seguente. Io sono formalmente libero di andare negli USA se sono in possesso dei documenti che mi rendono idoneo per entrare nel territorio degli USA. Sono realmente libero di andare se ho i soldi per comprare il biglietto e se sono fisicamente capace di sopportare il viaggio.
D: Possiamo identificare questa tua idea di "libertà reale" con l'idea di Amartya Sen di "capacità"? Se è così, presumibilmente, non sarebbe giusto concentrarsi esclusivamente sui redditi.
R: Il mio interesse per la libertà reale di quelli che hanno meno libertà reale mi porta, nel libro, a giustificare il reddito non-condizionato più alto tra quelli sostenibili nel tempo, ma con due vincoli: da un lato, la protezione della libertà formale di tutti, e dall'altro, il raggiungimento di quello che io chiamo la "diversità non-dominata" (undominated diversity). La diversità non-dominata descrive una distribuzione delle dotazioni delle persone, sia interne (i loro talenti e handicap), sia esterne (la loro ricchezza, i loro lavori e diritti a benefici, e così via). Quella distribuzione viene raggiunta quando nessuno ha una dotazione totale così bassa che in confronto ad essa ogni persona preferirebbe avere la dotazione totale di qualcun'altro. Lo stesso Amartya Sen ha fatto notare, in un articolo intitolato Welfare, Freedom and Social Choice: a Reply (in "Recherches économiques de Louvain", 1990), che questa condizione della diversità non-dominata è strettamente connessa alla sua nozione di uguaglianza debole delle capacità. Ciò che specifica è la quantità di risorse che la giustizia richiede di allocare agli "handicappati". Però, ci potrebbero essere ragioni schiaccianti per allocare queste risorse in natura, per esempio, nella forma del sovvenzionamento dell'assistenza medica o di disposizioni che facilitano l'uso dei trasporti pubblici da parte degli handicappati, piuttosto che nella forma di compensazione in contanti. Inoltre, ci sono vari tipi di argomenti - che elenco e illustro nel libro - che giustificano fornire una parte dello stesso reddito di base in natura - aria pulita, istruzione gratuita, assicurazione sanitaria fondamentale - piuttosto che in contanti. Se si parte da un interesse per la libertà reale, è vero che si inizia con una presunzione a favore dei contanti, dal momento che il reddito monetario è la cosa più facilmente convertibile nella gamma più svariata di opzioni. Ma ci sono molti casi in cui questa presunzione può essere rinnegata per il bene della stessa libertà - o più precisamente, per il bene della massima libertà reale, sostenibile nel tempo, di quelli che hanno la quota più bassa di libertà reale.
D: Nella prefazione al tuo libro, esprimi un grande debito nei confronti del September Group ("il gruppo di settembre"). Che cos'è il September Group, e quali dei suoi membri ti hanno influenzato di più?
R: Il September Group è un piccolo gruppo di "marxisti analitici e compagni di viaggio" che è nato nel '79 con un'iniziativa di Jon Elster (che attualmente sta all'università di Columbia) e G.A. Cohen (che attualmente sta all'università di Oxford), e che da quel momento si riunisce ogni settembre o a Londra o nel nord america. Mi hanno invitato a unirmi al gruppo nel 1981. Anche se non mi sono mai concepito o descritto come marxista, mi sono sempre trovato particolarmente a mio agio in mezzo a questo gruppo, data la sua ambizione di combinare un rigore intellettuale risoluto con un impegno appassionato nei confronti dei valori caratteristici della sinistra radicale, anche se, essendo di un po' di anni il membro più giovane, spesso mi sentivo un po' come uno studente di dottorato ammesso con benevolenza in un gruppo di studiosi di altissimo livello. L'influenza che quelli del September Group hanno esercitato su di me è documentata a dovere nel libro che ho dedicato a loro, Marxism Recycled, in riconoscimento, come ho scritto lì, del "tremendo stimolo di quest'insieme di simpatizzanti, riuniti in carne e ossa una volta l'anno, ma presente durante tutto l'anno come pubblico invisibile, simpatetico ma esigente. Per ciascun membro, probabilmente potrei trovare un punto di vista per cui mi sento più vicino a lui . Ma è soprattutto la comunità intellettuale, che si è costruita negli anni, leggendo i lavori degli altri, discutendoli e, alcune volte, distruggendoli, che costituisce un'esperienza e un'influenza così unica.
D: C'è un qualche partito politico europeo che ti sembra condivida di più la tua concezione di giustizia?
R: Nel 1981 sono stato co-fondatore e il primo segretario della sezione locale di ECOLO, il partito dei verdi, nella città universitaria di Louvain-la Neuve. Anche se i miei obblighi professionali e di famiglia mi hanno costretto, nel tempo, a prendere un ruolo più passivo, sono tuttora un membro. Questa è una risposta indiretta alla tua domanda. Ciò che mi ha attirato al movimento verde - e ciò che mi fa rimanerci dentro - è l'enfasi che pone costantemente sulla sostenibilità, su una prospettiva mondiale, sulla riabilitazione di attività non-pagate, sull'incorporazione degli immigrati nel processo politico, e sulla tutela degli interessi di quelli che stanno peggio, molti dei quali, nelle nostre società, non appartengono più alla "classe lavoratrice". Tutte queste considerazioni sono strettamente connesse alla mia concezione della giustizia. Ciò non vuol dire che sarei membro di un partito verde qualunque fossero le circostanze del paese, in particolare il suo sistema elettorale. Né mi impedisce di sentirmi vicino a molte persone che hanno scelto di militare, per esempio, all'interno dell'ala sinistra dei partiti cristiano-democratici, o almeno delle componenti corporatiste dei partiti social-democratici.
D: Dici di trovare attraente la prospettiva mondiale dei verdi. Che cosa pensi, allora, dell'idea di un reddito di base veramente universale - cioè, istituito a livello globale, e non solo all'interno del Belgio, o dell'Europa, o di qualche altra comunità chiusa?
R: È un sogno, ma un sogno importante. A causa della globalizzazione dell'economia, siamo ora intrappolati in un processo che vivremo come una crisi permanente finché non verrà realizzata qualcosa come quel sogno. Il fatto che un sistema globale di redistribuzione interpersonale non-mirata molto probabilmente non prenderà forma fino a molto tempo dopo i nostri morti, non impedisce che quest'orizzonte sia attivo proprio ora, quando prendiamo in considerazione e combattiamo per o contro la decentralizzazione nelle nazioni esistenti, l'unificazione europea, o la struttura e i poteri di organizzazioni mondiali come l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, l'Organizzazione Mondiale del Commercio e il Fondo Monetario Internazionale. L'idea di un mercato mondiale senza la redistribuzione mondiale, permanente e sostanziosa, e l'idea di un mondo fatto di nazioni autosufficienti, sono entrambe visioni assurde del futuro che non hanno nessun titolo per guidare le lotte e le decisioni di attivisti e politici interessati alla giustizia. L'idea di un reddito di base veramente universale non lo è. Se pensi in maniera concentrata, profonda, e lungimirante all'ambiente globale, alla mobilità del capitale, alla migrazione internazionale e alla sottomissione agli imprevisti del mercato mondiale, ti dovresti convincere perfino che non c'è una visione sopportabile che non incorpori qualcosa di simile.

lunedì 18 agosto 2008

Le “Proibizioni Italiane” fanno ridere l’Europa


LA STAMPA D'OLTREMANICA PRENDE DI MIRA LE MISURE DI SICUREZZA IN ITALIA.
L'Inghilterra critica i divieti all'italiana.
L'Independent mette in guardia gli inglesi: «Se una cosa è divertente, l'Italia ha una legge che lo vieta»
Come criticare il quotidiano inglese ‘ The Indipendent ’ che deride dell’ Italia e dei suoi – ridicoli – decreti : no a venditori ambulanti, è vietato dar da mangiare ai piccioni, è vietato rinfrescarsi nelle fontane pubbliche, è vietato lasciare l’asciugamano sulla spiaggia, a Positano e Capri è vietato camminare con gli zoccoli “ troppo rumore ”, no agli animali anche con guinzaglio, non si può fumare nei parchi pubblici, a Bologna non si possono fare piercing, in alcune località sono vietate le bottiglie di vetro, a Genova gli alcolici anche in lattina, tra le tante altre per finire a Novara è vietato sostare nei parchi e a Eboli scambiarsi effusioni amorose, ecco cosa pensa l’Europa e in particolare gli inglesi della nostra ex-affascinante Italia e giustamente il quotidiano Inglese avverte i suoi turisti: «Turisti attenti: se una cosa è divertente, l'Italia ha una legge che lo vieta». Come non ringraziare il nostro grande governo che si definisce “liberale” ? E pensare che ci stiamo preoccupando per le migrazioni. Che i musulmani guardino il nostro paese come esempio alla loro cultura? La cosa “se mi permettete” non mi piace proprio.

sabato 16 agosto 2008

Copywrong di Samuel Edward Konkin III

Articolo da: http://tarantula.ilcannocchiale.it/

Nel 1964, un articolo apparso sul New York Times descriveva Raymond Cyrus Hoiles come “di costituzione snella, naso adunco, occhialuto e con una frangia di capelli ancora scuri intorno alla testa calva” e lo identificava come un volontarista. Riguardo le imminenti elezioni presidenziali (Goldwater stava correndo per la presidenza), lo stesso articolo riportava come Hoiles non fosse incline a guardare nell’urna per trovare una veloce applicazione delle sue idee libertarie. Nell’articolo viene citata la sua frase: “Non importa chi sarà il presidente. Quello che è importante è l’atteggiamento degli americani.”

Avendo lavorato ad ogni fase della produzione nell’industria editoriale, per me e per altri, sono giunto ad una irrefutabile conclusione empirica su quello che è l’effetto del copyright su prezzi e paghe: nada. Zero. Nihil. Così trascurabile che servirebbe un contatore Geiger per misurarlo.

Prima di passare all’esatto impatto del copyright, può essere interessante spiegare la trascurabilità di questa tariffa. La risposta è nella particolare natura del publishing: ci sono grandi case o piccoli editori, e veramente pochi di dimensioni medie. Per le grandi compagnie i diritti di autore sono una percentuale modesta di edizioni multimilionarie: perdono molti più soldi per ritardi burocratici e per errori di stampa. I piccoli editori fanno solitamente parte della counter-economic e sopravvivono con materiale donato, lasciando che siano i nuovi scrittori a preoccuparsi del copyright e della rivendita.

Ancora, ci sono ben pochi casi di azioni legali nel mondo delle riviste proprio a causa di questa disparità. I piccoli magazine non hanno speranza di rivalersi su imbrogli e plagi e sono costretti a fare spallucce dopo minacce superficiali, quando i legali aziendali delle grandi hanno fatto sentire rumore di sciabole e più o meno tutti finiscono per adeguarsi tranquillamente.

La pubblicazione di un libro è solo una piccola parte dell’attività editoriale e sono diversi gli editori di media grandezza che stanno attenti al quadro complessivo dei costi per pubblicazioni marginali. Ma ora ci sono solo due tipi di scrittori: i grandi nomi e gli altri. Raramente tutti vengono ristampati e il copyright non ha nulla a che fare con la prima stampa, economicamente parlando. I grandi nomi rastrellano vendite, ma avanzano richieste continuamente crescenti per i loro contratti successivi.E il rischio ridotto di invenduto delle ristampe di un grande nome viene compensato dal pagamento allo scrittore di più elevati diritti.

Così i grandi nomi perderebbero qualcosa di sostanziale se il privilegio (e sottolineo “privilegio”) del copyright cessasse di essere applicato. I grandi nomi sono una percentuale piccola, ancora più piccola di quella degli attori famosi tra gli attori. Se sparissero domani nessuno se ne accorgerebbe (eccetto i loro amici, si spera). Eppure, ci si può ragionevolmente chiedere se l’incentivo costituito dallo star system possa essere spazzato via senza avere il collasso di tutta la piramide. Se c’è un argomento economico che rimane a favore del copyright, questo è l’incentivo.

Che schifo. Come Don Marquis mise in bocca ad Archy la Blatta, “L’espressione creativa è il bisogno della mia anima”. E Archy ha battuto tutta la notte la testa sui tasti della macchina da scrivere per tirare fuori le colonne che Marquis avrebbe incassato. La scrittura sarà un mezzo di espressione fino a quando qualcuno avvertirà il bruciante bisogno di esprimersi. E se tutto quello che devono esprimere sono richieste di secondi pagamenti e residui associati, stiamo tutti meglio per non averli letti.

Ma, purtroppo, l’istantanea eliminazione dei copyright avrebbe un effetto trascurabile sullo star system. Mentre metterebbe fine alla miniera d’oro della rendita vitalizia per gli scrittori famosi, non avrebbe alcun effetto sulla loro più grande fonte di reddito: il contratto per il loro prossimo libro (o qualsiasi altra opera). E’ lì che stanno i soldi.

“Sei buono soltanto quanto il tuo ultimo pezzo” ma per quello raccogliereai sulla tua prossima vendita. Le decisioni di mercato vengono fatte su vendite anticipate: suona alla Mises, dico bene? Un altro grande scrittore che guadagnò poco dal copyright, mentre attualmente altri stanno approfittando della parte migliore del suo corpo; scusate, corpus.

Il punto di tutta questa volgare prasseologia non è solo di pulire il senso della domanda morale. Il mercato (sia lodato) ci sta chiedendo qualcosa. Dopotutto, sia l’azione umana di scambio che la morale vengono dalla stessa legge naturale.

Infatti, togliamo i rami secchi e le false piste prima di affrontare la grande questione morale. Primo, se aboliamo il copyright, i grandi autori potrebbero morire di fame? No. Scriverebbero ancora se non venissero pagati? Chi dice che non potrebbero? Non c’è alcun collegamento tra compenso e copyright. I diritti di autore iniziano a scorrere, o meglio a gocciolare, molto tempo dopo che il lavoro è stato venduto e quello dopo è in fase di realizzazione.

Non è forse un produttore titolare del frutto del suo lavoro? Sicuramente, ecco perché gli scrittori vengono pagati. Ma se faccio una copia di una scarpa o di un tavolo o di un ceppo per il camino (con la mia ascia copiata), forse il calzolaio o il falegname o il boscaiolo ricevono dei diritti d’autore?

A. J. Galambos, benedetto il suo cuore anarchico, tenta di portare il copyright e le patenti alle loro logiche conclusioni. Ogni volta che rompiamo un bastone Ug “il primo” dovrebbe ricevere dei diritti d’autore. E’ folle considerare le idee come proprietà, e ne risulta solo il caos.

La proprietà è un concetto estrapolato dalla natura dall’uomo per indicare concettualmente la distribuizione di risorse limitate, l’intero mondo materiale, fra individui avidi e in competizione. Se io ho una idea, potete averla anche voi senza togliermi nulla. E dico “voi” come potrei dire “noi” perché per me vale la stessa cosa.

Le idee, per usare il linguaggio dei programmatori, sono i programmi; la proprietà sono i dati. O, per usare un altro stereotipo ricorrente, le idee sono le mappe e le cartografie e la proprietà è il territorio. La differenza si comprende bene se paragonata alla differenza tra il sesso ed il parlare di sesso.

Non potrebbero venire represse delle idee senza l’incentivo assicurato dal copyright? Al contrario, il più grande problema delle idee riguarda la loro distribuzione. Come farle arrivare a quei soggetti del mercato che possano diffonderle? Probabilmente molti lettori conosceranno questa risposta nel 1996, visto che scrivo nel 1986.

Le mie idee sono parte di ciò che passa per la mia anima (o, se preferite, del mio ego). Di conseguenza ogni volta che ne adotto una, una piccola parte di me le ha infettate. E per questo vengo anche pagato! E dovrei essere pagato e pagato e pagato per quanto sono trite e ritrite?

Se il copyright è un freno, perché e come si è evoluto? Non tramite un processo di mercato. Come tutti i privilegi (e sottolineo “privilegi”), è stato garantito dal re. L’idea non poteva, non avrebbe potuto, manifestarsi fino all’avvento del torchio tipografico di Gutenberg, con cui coincise l’aumento della divinità regale e, poco dopo, l’assalto violento del mercantilismo.
Ma chi trae beneficio da questo privilegio? C’è un impatto economico che non sono riuscito ad accennare immediatamente. Esso è, nelle parole di Bastiat, “il non visto”. Il copyright è il metodo con cui, dietro la copertura della protezione degli artisti, il grande editore porta restrizioni nel commercio. Sì, stiamo parlando di monopolio.

Per quanto le corporation lancino l’osso allo scrittore che lotta, e una occasionale bistecca alla decima richiesta di percentuali, esse ricevono il monopolio legale sulla pubblicazione, la composizione, la stampa, il packaging, la commercializzazione ed a volte perfino sulla distribuzione di un certo libro o giornale (per i quali ha l’esclusività nella disposizione di articoli, illustrazioni e inserzioni pubblicitarie). E’ abbastanza come integrazione verticale e restrizione al commercio?

E così il sistema si perpetua, e o lo si accetta o ci si affida a fuorilegge che operano nella counter-economic e ad imprenditori taiwanesi collegati con il contrabbando.

Poiché il copyright permea tutti i mass media, è l’Imbroglio Che Nessuno Osa Menzionare. Il marcio che corrompe il nostro intero mercato delle comunicazioni è così intrecciato con i diritti d’autore che non sopravviverebbe un istante all’abolizione dello stato e della relativa applicazione del copyright. Poiché i perdenti, gli scrittori sconosciuti e i loro lettori, perdono così poco ciascuno, sembra che siamo soddisfatti di essere “leggermente” borseggiati. Perché preoccuparsi dei pizzichi di zanzara quando abbiamo i segni delle ferite del vampiro, le tasse sui redditi e sull’automobile?

Una fondamentale domanda morale: che cosa mi ha svegliato riguardo al problema di cui finora ero un innocente spettatore? Consideriamo attentamente la seguente costruzione contrattuale.
Il grande autore ed il grande editore hanno l’accordo di non rivelare una parola sul contenuto delle nuove pubblicazioni. Tutto il personale, ogni persona ad ogni livello della produzione è tenuta a non rivelare nulla. Tutti i distributori tengono il segreto e le pubblicità dicono meno cose possibile. Ogni lettore è come la Death Records per Phantom of the Paradise, ugualmente sotto contratto, e così è ogni lettore che compra il libro o la rivista e interagisce con qualcuno che sia sotto contratto – interagisce in un commercio ed in un accordo volontario.

No, non sono preoccupato per il creatore simultaneo; che pure è una ovvia vittima, casi rari, data la sufficiente complessità dei lavori di cui stiamo parlando. Comunque, alcune recenti decisioni sul copyright e il caso Dolly Parton, che ha perfino meritato un processo serio, significano che la corruzione si sta espandendo.

Un giorno voi ed io cammineremo in una stanza, invitati senza alcuna menzione di un contratto, e delle pubblicazioni staranno aperte su un tavolo. I fotoni che ne saltano dalle pagine arrivano ai nostri ed al nostro sfortunato cervello processa le informazioni. Assolutamente innocenti, avremo commesso un atto involontario, avremo violato il copyright. Abbiamo involontariamente commesso un atto di pirateria.
E Dio o il Mercato ci aiutino se proviamo a seguire le idee che ci passano per la testa, o di rivelare questi colpevoli segreti a chiunque. Lo stato ci punirà, graziandoci solo se Grandi Autori e Grandi Editori decideranno nella loro tirannica misericordia che siamo troppo piccoli per causare problemi.Se usiamo le idee o le ripetiamo o le ristambiamo, magari come parte di una nostra più ampia creazione, bum! Ecco che arriva il monopolio. E così ogni spettatore innocente dovrebbe essere soppresso. Attraverso il mercato? Arduo. L’intero accordo contrattuale cade come un castello di carte quando l’innocente prende visione proibitamente. No, il copyright non ha nulla a che fare con la creatività, come un incentivo, o con qualsiasi frutto del lavoro o di qualsiasi altro elemento di un libero mercato morale.
E’ una creatura dello stato, il piccolo pipistrello del vampiro. E, per come è concepito, il termine per indicarlo dovrebbe essere copywrong.

venerdì 15 agosto 2008



Domenico vi augura una buona giornata di vacanza e relax...

mercoledì 13 agosto 2008

Anche questo leggendo Marx ed Engels


“Una persona normalmente informata su quel che è successo nel mondo, non può che essere, e nel modo più naturale, visceralmente anticomunista. Il problema vero sono coloro che reagiscono istericamente, scompostamente al naturale anticomunismo”(Arnold Beichman).

Bellissimo articolo dal blog: http://www.eravolgare.net/?p=340

«Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo». Questa affermazione iconoclasta, fondata sui testi dei «padri» del socialismo scientifico, è di Jean-François Revel.
Questo è l’inizio di un interessante articolo di Gianluca Arrigoni, apparso su “Libero” il 28 gennaio 2005 che riportiamo di seguito.
“Jean-François Revel, nella sua prefazione al libro di George Watson «La littérature oubliée du socialisme», argomenta: “È nelle origini più autentiche del pensiero socialista, nei suoi più antichi dottrinari, che si trovano le giustificazioni del genocidio, della purificazione etnica e dello Stato totalitario, impugnate come delle armi legittime, indispensabili al successo della rivoluzione e alla preservazione dei suoi risultati.
(…) Engels, nel 1849, chiedeva lo sterminio degli ungheresi, ribellatisi contro l’Austria. E dà alla rivista diretta dal suo amico Karl Marx, la “Neue Rheinische Zeitung”, un articolo importante la cui lettura sarà raccomandata da Stalin, nel 1924, nei sui «Fondamenti del Leninismo». Engels vi consiglia di far scomparire, oltre agli ungheresi, i serbi e altri popoli slavi, poi i baschi, i bretoni e gli scozzesi”. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 dalla stessa rivista, lo stesso Marx si chiede come si possa fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”.
La razza conta molto, per Marx e Engels. Che scrive nel 1894, a uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius: “Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico…”. Secondo i fondatori del socialismo, la superiorità razziale dei bianchi è una verità “scientifica”.
Nelle sue note preparatorie a «L’Anti-Dühring», il vangelo della filosofia marxista della scienza, Engels scrive: “Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia”. Ancora nel XX secolo, degli intellettuali socialisti, grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, come H. G. Wells e Bernard Shaw, rivendicano il diritto per il socialismo di liquidare fisicamente le classi sociali che fanno ostacolo alla Rivoluzione o che la ritardano.
Nel 1933, nel periodico “The Listener”, Bernard Shaw, facendo prova di un bello spirito di anticipazione, per rendere più rapida l’epurazione dei nemici del socialismo incita i chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» - mortale - ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il boia nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme, nel 1962, invocò in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, che servi ad uccidere le vittime della Shoah.
Il nazismo e il comunismo hanno come tratto comune di volere una metamorfosi, una redenzione totale della società, e se possibile dell’umanità. Per questo, pensano di avere il diritto di annientare tutti i gruppi razziali o sociali che potrebbero essere un ostacolo, foss’anche in modo involontario e non cosciente - nel gergo marxista “oggettivamente” - , a questa sacra impresa di salvezza collettiva.
In questi giorni, mentre il dovere di memoria sembra un principio condiviso da tutti, Jean-François Revel, mostrando una verità nascosta, dimostra come sia più difficile applicare quello che è un suo indispensabile complemento, il dovere di verità”.

martedì 12 agosto 2008

Commentate voi....


(ANSA) - BUENOS AIRES, 29 LUG - L’Agenzia per le entrate fiscali argentina (Afip) ha lanciato un videogioco interattivo per educare i giovani a pagare le tasse. Denominato Perfil de Riesgo (Profilo di rischio), il videogioco affida ad una giovane ed avvenente Martina dai capelli rossi la missione di abbattere i pregiudizi esistenti fra il cittadino e il pagamento delle tasse. Destinato ai ragazzi tra i dieci e i 16 anni, il videogioco e’ gratuito ed e’ scaricabile da internet a partire da settembre.

lunedì 11 agosto 2008

Cyber-droga, il mercato delle ''droghe'' si evolve

Se le note possono fare bene e in qualche modo guarire, ora possono anche “sballare”.A lanciare l’allarme è il Gat, Nucleo speciale frodi telematiche della Guardia di Finanza, che ha scoperto questo traffico su Internet di “note allucinogene”. “Si tratta di particolari brani musicali e sequenze sonore, che hanno effetti simili a quelli delle droghe tradizionali’”, spiega il colonnello Umberto Rapetto, comandante del Gat.
Il mercato delle ''droghe'' ora lancia le cyber-droghe, onde sonore che viaggiano su frequenze molto basse, fra 3 e 30 Hertz, tecnicamente sono infrasuoni. Agiscono direttamente sul cervello, sollecitandolo e provocando reazioni che vanno dall’eccitazione al rilassamento. Gli stessi effetti delle droghe, di cui questi file portano il nome, a seconda, appunto, del risultato: “cocaina”, “marijuana”, “effetto orgasmico” e così via. “L’effetto di stordimento è amplificato se questi suoni si ascoltano con le cuffie, al buio, in tranquillità e associati a musiche particolari e magari all’assunzione di alcolici”. I reali danni alla salute delle cyber droghe e il rischio di dipendenza sono ancora tutti da verificare, ma la politica delle proibizioni è partita all'attacco l'italia dei valori ha già presentato un interrogazione parlamentare. A differenza delle droghe possono essere “consumate” e poi passare di mano in mano. Ma c’è già qualcuno che vende il lettore mp3 che contiene le “dosi” audio e chi propone a pagamento i propri suoni, perché particolarmente efficaci e di qualità. Il mercato quindi è come quello della coca o dell’hashish: la prima dose, per provare, è gratis. Poi il cliente diventa affezionato ed è disposto a pagare. Sui siti specializzati si trovano anche le istruzioni per l’uso e i commenti di chi ha già preso il prodotto, con consigli sulle tecniche di somministrazione e descrizioni entusiaste delle sensazioni che si provano.
Alcuni siti:
http://www.i-doser.com/
http://www.cyberdroga.com/

Personalmente scettico l'ho provata senza alcuno effetto solo un gran casino anche se devo ammettere che un uso prolungato provoca giramenti di testa, vi lascio ''l'assaggio'':


Allarme droghe virtuali
Caricato da BananaFlambe

domenica 10 agosto 2008

Camillo Berneri un gran libertario


Berneri era nato il 20 maggio 1897. La salute cagionevole e la madre mazziniana separata dal padre, segretario comunale a Lodi, gli contorsero l'infanzia. Però, in vita modesta ma elitaria, girò con lei l'Italia delle rivolte: tra cuori generosi e menti spregiudicate e tenaci. Quindicenne era seguace del socialista reggiano Prampolini, e nel 1915 si trovò, ad una riunione antimilitarista contro Cesare Battisti, costernato davanti a due manifestanti morti. Poi Torquato Gobbi gli fu maestro, nelle sere brumose lungo la via Emilia, sotto i portici che risuonavano dei suoi baldi tentativi di resistere: convenne d'essere nato anarchico entusiasta. Anche perciò si sposò minorenne, ad Arezzo, con un'allieva della madre.


Appena in tempo per essere arruolato nella Grande Guerra e continuare la propaganda. Scoperto, venne spedito in prima linea e ferito. Quindi, a guerra finita, venne confinato dalla Regia Questura a Pianosa, anarchico schedato. Ne convenne: la società attuale è detestabile, bisognava prediligere la minoranza, parte eletta. A fianco di Malatesta e Fabbri, che l'amavano come un figlio, fu avversario della tirannia fascista. Ma era troppo libero, persino per gli altri anarchici, che paradossali scrivevano al loro leader storico Malatesta, protestando che certe sue idee erano così inattese e fattori di disgregazione interna. Faticò a studiare perché molto miope, ma nel 1922 si laureò con Gaetano Salvemini e divenne amico di Ernesto Rossi, Gobetti e Rosselli. La generalità degli anarchici era atea, lui non pensava a Dio; i più erano per un'economia comunistica, lui voleva la concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e individuali.
Soprattutto, poi, Berneri negava sì l'autorità di ogni Stato centrale, però gliene piaceva molto uno federale e d'autonomie.Giudicava degli invasati i comunisti, ottusi dalle pedagogie dispotiche e bigotti di una operaiolatria che derideva: «Non contenti della "anima proletaria", hanno tirato fuori "la cultura proletaria"».
Leggendo L'Ordine Nuovo , riconobbe le patologie provinciali di Gramsci e se l'immaginava piovuto a Torino dalla nativa Sardegna e preso dagli ingranaggi della metropoli industriale: la letteratura bolscevica russa gli pareva pantografare l'identico processo psichico. Un anarchico così perspicace non poteva piacere ai fascisti, che gli negarono la cattedra e s'abituarono a picchiarlo. Nella primavera del 1926 fuggì quindi in Francia, costretto a umilissimi mestieri per sfamare la moglie e le due bimbette che lo raggiunsero. Berneri riuniva le ingenuità e tutti gli slanci del più puro anarchico con un'intelligenza senza astuzia, e però meditativa. S'accorgeva di quanto fosse malata la ristagnante ossessione settaria, che rovinava la vita degli esuli non meno della miseria. D'altra parte, essendo ingenuo, era predestinato ad esserne la prima vittima. Nel 1928, espulso in Belgio, elogiò l'attentato al principe Umberto di Savoia e, con gli evasi di Lipari di Giustizia e Libertà, fu implicato nel progetto d'attentato al ministro Rocco in visita. Ma si lasciò consegnare proprio dalla spia Menapace un pacco di cheddite e finì altri mesi e mesi in prigione, come gli riaccadde con le riespulsioni in Francia e Germania. La guerra di Spagna lo sorprese nei dubbi, mentre s'era deciso a scrivere «una specie di lirica in prosa delirante». Partecipò ai combattimenti come semplice miliziano, ma i suoi compagni insistettero perché rientrasse a Barcellona: era così miope e sordo; ma soprattutto era più adatto ad altro. Mediò i contrasti tra gli anarchici e Gl; e avversò gli omicidi stalinisti; e quindi Togliatti, che Berneri riconobbe per il professorino pedante, di «perentorietà asinesca», che era. Le gesta che gli costarono la vita. Eppure in Italia abbondano le vie intitolate a Togliatti e agli altri complici dei suoi peccati. Non ce n'è un granché dedicate a Berneri.
Ripetendo In economia Berneri diceva: “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti, sul terreno politico sono intransigenti al cento per cento!” Ovvero, se la critica allo stato e la negazione del principio di autorità erano mete irrinunciabili, la forma economica anarchica doveva rimanere aperta, e che si dovesse sperimentare la libera concorrenza tra lavoro e commercio individuali e lavoro e commercio collettivisti. La collettivizzazione coatta era quindi da condannare se frutto dell'imposizione e non della libera scelta: l'anarchia non doveva portare ad una società dell'armonia assoluta, ma alla società della tolleranza.

Di seguito pubblico una sua lettera a Piero Gobetti, che dimostra quanto labili siano in realtà le barriere tra i pochi che, nel nome della libertà, si oppongono al potere oppressivo dello stato.

Il liberismo nell'Internazionale

di Camillo Berneri


Caro Gobetti,

m'è accaduto più volte, trovandomi a discutere delle mie idee con persone colte, di dover constatare, per le domande rivoltemi e per le obbiezioni mossemi, che il movimento anarchico, che pure fa parte, e non piccola, della storia del socialismo, è o semi-ignorato o malamente conosciuto. Non mi sono, quindi, stupito, leggendo l'articolo del prof. Gaetano Mosca sul materialismo storico, nel vedere annoverato tra i socialisti utopisti il Proudhon, che rimarrebbe mortificato nel vedersi posto a braccetto con quel Blanc, che egli saettò con la più aspra ironia per aver posto “l'Eguaglianza a sinistra, la Libertà a destra e la Fratellanza in mezzo, come il Cristo fra il buono e il cattivo ladrone.”

Per escludere il Proudhon dagli scodellatori della zuppa comunista, basterebbe la critica alla formula, che divenne poi il credo Krapotkintano “da ciascuno secondo le sue forze ed a ciascuno secondo i suoi bisogni,” formula che egli chiama una casuistica avvocatesca, poiché non vede chi potrà fare la valutazione delle capacità e chi sarà giudice dei bisogni. (Cfr. L'Idée générale de la Révolution au dix-neuviéme siécle. - Garnier, Paris, 1851, p. 108).

L'errore in cui è caduto il Mosca è interessante, poiché dimostra come sia sfuggito a molti studiosi della storia del socialismo questa verità: che il collettivismo dell'Internazionale ebbe un valore essenzialmente critico. Fatto che è stato negato anche da alcuni anarchici, come da L. Fabbri, che sostiene essere l'anarchismo "tradizionalmente e storicamente socialista" in quanto ha per base della sua dottrina economica "la sostituzione della proprietà socializzata alla proprietà individuale" (cfr. Lettere ad un socialista; Pensiero - 1910, n. 14, p. 213).

Basta una rapida scorsa alla storia della Iª Internazionale per smentire questa affermazione. L'Internazionale nacque in Francia, nell'atmosfera ideologica del mutualismo proudhoniano, e, come dice Marx in una sua lettera relativa al Congresso di Ginevra (1866), non aveva, nel suo primo tempo, espressa alcuna idea collettivista né comunista. Il rapporto Longuet nel Congresso di Losanna (1867) dimostra che Proudhon dominava ancora. E tale dominio si riscontra nel Congresso di Bruxelles (1868), in cui, tuttavia, si affacciò l'idea collettivista, ma in modo generico e limitata alla proprietà fondiaria e alle vie di comunicazione. La collettivizzazione affermata nel IV Congresso, quello di Basilea (1869), fu limitata al suolo. L'influenza praudhoniana, dunque, è parallela all'anti-comunismo e all'anti-collettivismo.

Al collettivismo aderirono Bakounine e seguaci; ma vedendo in esso più che un progetto di forma economica, una formula di negazione della proprietà capitalista. Bakounine era entusiasta di Proudhon. Egli (Cfr. Oeuvres, I, 13-26-29) esalta il liberismo nord-americano [non erano ancora sorti i trusts], e dice “La libertà dell'industria e del commercio è certamente una gran cosa, ed è una delle basi essenziali della futura alleanza internazionale fra tutti i popoli del mondo.” E ancora: “I paesi d'Europa ove il commercio e l'industria godono comparativamente della più grande libertà, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo.” L'entusiasmo per il liberismo non gli impedisce di riconoscere che fino a quando esisteranno i governi accentrati e il lavoro sarà servo del capitale “la libertà economica non sarà direttamente vantaggiosa che alla borghesia.” In quel direttamente vi è una seconda riserva. Infatti egli vedeva nella libertà economica una molla di azione per la classe borghese, che egli afferma essere ingiusto considerare estranea al lavoro (Cfr. Oeuvres, I, pp. 30 e segg.), e non poteva non riconoscere la funzione storica del capitalismo attivo. Interessanti sono anche i motivi delle simpatie del B. per il liberalismo nord-americano, poiché ci spiegano che cosa egli intendesse per proprietà.

Il B. fa presente che il sistema liberista nord-americano “attira ogni anno centinaia di migliaia di coloni energici, industriosi ed intelligenti,” e non si impressiona punto all'idea che costoro divengano, o tentino divenire, proprietari.

Anzi, si compiace che vi siano coloni che emigrano nel Far West e vi dissodino la terra, dopo essersela appropriata, e nota che “la presenza di terre libere e la possibilità per l'operaio di diventare proprietario, mantiene i salari ad una notevole altezza ed assicura l'indipendenza del lavoratore” (Cfr. Oeuvres, I, 29).

La concezione del valore energetico della proprietà, frutto del proprio lavoro, è la nota fondamentale della ideologia economica del B. e dei suoi più diretti seguaci. Tra questi Adhémar Schwitzguébel, che nei suoi scritti (Cfr. Quelques écrits, a cura di J. Guillaume, Stock, Paris, pagina 40 e seguenti) sostiene che l'espropriazione rivoluzionaria deve tendere a concedere ad ogni produttore il capitale necessario a far valere il suo lavoro. La dimostrazione storica dell'anti-comunismo bakunista sta nel fatto che le tendenze comuniste nell'Internazionale italiana trionfarono nel 1867, quando l'attività del Bakounine era quasi interamente sospesa (Cfr. Introd. del Guillaume alle Oeuvres de B., p. XX) e nel fatto che in Spagna, ove l'Alleanza aveva piantato profonde radici, perdura una corrente anarchica collettivista in senso bakunista.

Se il collettivismo dell'Internazionale fosse stato compreso dal Mazzini non ci sarebbe stato il fenomeno della sua critica anti-comunista. Così criticava il Mazzini: “L'Internazionale è la negazione di ogni proprietà individuale, cioè di ogni stimolo alla produzione... Chi lavora e produce, ha diritto ai frutti del suo lavoro: in ciò risiede il diritto di proprietà... Bisogna tendere alla creazione d'un ordine di cose in cui la proprietà non possa più diventare un monopolio, e non provenga nel futuro che dal lavoro.” Saverio Friscia, nella “Risposta di un internazionalista a Mazzini,” (pubblicata sopra il giornale bakunista L'Eguaglianza di Girgenti, e ripubblicata dal Guillaume, che la trova superba e l'approva toto corde [Cfr. Oeavres de B., vol. VI, pp, 137-140]) rispondeva: “Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale.” Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l'assioma “chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?”. E dopo aver analizzato le critiche del Mazzini, esclama: “Ma non è questo del puro socialismo? Che cosa volevano Leroux e Proudhon, Marx e Bakunin, se non che la proprietà sia il frutto del lavoro? E il principio che ogni uomo deve essere retribuito in proporzione alle sue opere, non risponde forse a quell'ineguaglianza di attitudini e di forze ove il socialismo vede la base dell'eguaglianza e della solidarietà umana?.”

In questa risposta del Friscia è netta l'opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell'eguaglianza relativa (economica); ed in fine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere.
Non pensi, caro Gobetti, che potrebbe essere utile, su R. L., una serie di studi sul liberalismo economico nel socialismo? Credo colmerebbe una grande lacuna e leverebbe di mezzo molti e vecchi equivoci. Credo ne risulterebbe, fra le tante cose interessanti, questa verità storica: essere stati gli anarchici, in seno all'Internazionale, i liberali del socialismo. Storicamente, cioè nella loro funzione di critica e di opposizione al comunismo autoritario e centralizzatore, lo sono tutt'ora.

Tuo C. Berneri.

venerdì 8 agosto 2008

Anarchia senza aggettivi

Bellissimo pezzo di Karl Hess

C’è solo un tipo di anarchico. Non due. Solo uno. Un anarchico, di quell’unico genere, è definito dalla letteratura e dalla lunga tradizione della posizione stessa, ed è un individuo che si oppone all’autorità imposta attraverso il potere gerarchico dello stato. L’unico ampliamento a questa definizione che mi sembri ragionevole è dire che un anarchico si sollevi contro ogni autorità imposta. Un anarchico è un volontarista.
Ora, oltre a questo, gli anarchici sono persone e, come tali, contengono le mille sfaccettature della personalità umana. Alcuni anarchici marciano, volontariamente, sotto la croce di Cristo. Alcuni si affollano, volontariamente, intorno ad altre figure che amano e che sono fonte di ispirazione. Alcuni vogliono fondare delle cooperative industriali volontarie. Alcuni cercano di stabilire volontariamente la produzione agricola all’interno di kibbutz. Alcuni vogliono, volontariamente, estraniarsi da tutto, compresi tutti i loro rapporti con altre persone; gli eremiti. Alcuni anarchici hanno deciso volontariamente, di accettare solo oro come pagamento, di non coopererare mai. Alcuni anarchici, volontariamente, adorano il sole e la sua energia, costruiscono cupole, mangiano solo vegetali e suonano il salterio. Alcuni anarchici adorano il potere degli algoritmi, giocano a giochi strani e si infiltrano in strani templi. Alcuni anarchici vedono solo le stelle. Alcuni anarchici vedono solo il fango.

Spuntano da un solo seme, non importa come fioriscano le loro idee. Il seme è la libertà. E questo è tutto. Non è un seme socialista. Non è un seme capitalista. Non è un seme mistico. Non è un seme determinista. E’ semplicemente una dichiarazione. Noi possiamo essere liberi. Quello che viene dopo sono tutte scelte e probabilità.

L’anarchia, la libertà, non ci dice come le persone libere si comporteranno o in quali modi si organizzeranno. Ci dice semplicemente che le persone hanno la capacità di organizzarsi.
L’anarchismo non è normativo. Non dice come essere liberi. Dice solo che la assenza di imposizioni, la libertà, può esistere.
Recentemente, in un giornale libertario, ho letto l’affermazione per cui il libertarismo sia un movimento ideologico. Può ben esserlo. In un contesto di libertà loro, tu, o noi, ognuno, ha la libertà di sostenere l’ideologia o qualsiasi altra cosa che non costringa altri a privarsi della loro libertà. Ma l’anarchismo non è un movimento ideologico. E’ una dichiarazione ideologica. Sostiene che tutti gli individui abbiano la capacità di essere liberi. Dice che tutti gli anarchici vogliono la libertà. Poi tace. Dopo questa pausa di silenzio, gli anarchici aggiungono la storia dei loro gruppi e proclamano come loro, non come anarchiche, le ideologie. Loro sanno come sarà, in quanto anarchici, sanno come ci si organizzerà, descrivono eventi, celebrano la vita e il lavoro futuri.

L’anarchismo è l’idea-martello che spezza le catene. La libertà è il risultato e, in libertà, tutto è fine alle persone e alle loro ideologie. Non è fine All' ideologia. L’anarchismo dice, in effetti, che non c’è una ideologia superiore o dominante. Sostiene che le persone che vivono nella libertà creino le loro storie e i loro stipulino accordi con e all’interno di essa.

Una persona che descrive un mondo in cui tutti devono o dovrebbero comportarsi, marciando al tempo di un tamburo semplicemente non è un anarchico. Una persona che dice di preferire un certo modo, e si augura che anche gli altri decidano di seguirlo, ma che comunque è convinta spetti a loro decidere, può certamente essere un anarchico e probabilmente lo è.
La libertà è la libertà. L’anarchismo è l’anarchismo. Non formaggio svizzero o chissà cos’altro. Non è proprietà. Non è coperto dal copyright. Sono vecchie idee rivolte a tutti che fanno parte della cultura umana. Possono essere scritte con tanti aggettivi dopo il trattino ma non sono nei fatti emendate. Esistono da sole. La gente ci aggiunge trattini ed ideologie supplementari.
La libertà, infine non è uno spazio in cui gli individui possono vivere. Non gli dice come vivranno. Dice, e dirà in eterno, solo quello che noi possiamo.

Articolo tratto da: http://liberteo.wordpress.com/

giovedì 7 agosto 2008

PDL che squallore!


IL Pdl, eccolo il partito che molti liberali e anche libertari hanno votato.
Molti di voi avranno gioito quando alla caduta del ridicolo governo Prodi il Nuovo soggetto politico PDL ha vinto anche con una bella maggioranza le elezioni.
Certo, mi rendo conto che non tutti, anche tra noi libertari, c'era accordo sull'astensione e per chi a differenza da me ha deciso di votare lo scenario è apparso sicuramnte spiacevole, con i radicali fusi nel pd neanche il più moderato dei libertari avrebbe deciso di votarli e quindi a tutta fiducia nel Pdl, certo mi direte lo abbiam fatto perchè unica oganizzazione che poteva portare avanti politiche sinceramente liberali, tutte chiacchiere che non condividevo e avevo ragione? Si! Se liberale è Berlusconi che ha minacciato di statalizzare l'Alitalia io allora non sono Domenico. Mi rendo sempre di più conto che questo governo oltre ad essere antilibertario, razzista, semi-fascista è completamente illeberale e super-proibizionista. Come giustamente mi fa notare il mio caro amico Riccardo (http://riccardo-isola.blogspot.com/) il motto di questo governo è: Meno libertà e più proibizioni per tutti! Nelle sole notizie di questa settimana ecco una scia di manovre e decreti che stanno portando anche pscicologicamente i cittadini a credere che la proibizione è la soluzione per combattere politiche di liberalizzazione e di legalizzazione mai esistite:

A Ravenna ma anche sull'Adda e sul Garda il nudismo è bandito per mancanza di toilet e per decenza pubblica.
A Roma si censura il seno nudo del Tiepolo.
A Novara non si può più sostare nei parchi pubblici la notte in più di due persone.
A Trento se riprendi tuo figlio così come lo hai fatto, in piscina, sei un pedofilo.
Bere una birra all'aria (caldissima) del fuori ti definisce ubriacone a Bologna come a Brescia.
Se fumi nei parchi-giochi di Verona ti multano.
A Sorrento non puoi fare il bagno mentre a Napoli raccogliere cozze è reato.
Se ti avvicini all'Asinara ti sparano.


La mia domanda che volgo ai liberali, quelli veri, che hanno votato il Pdl: Questo è quello che volevate? e poi se propio dovevate votare e se giustamente ricercavate politiche veramente liberali scusate ma non potevate votare il PLI?
Cari amici spero che vi rendiate conto dell'enorme sbaglio che avete fatto, personalmente ho fatto campagna per l'astensione e ne vado fiero!

martedì 5 agosto 2008

Stato è violenza, Libertà è libertà


Interessante articolo comparso sul blog: http://www.eravolgare.net/

Tesi: i governi, per definizione, prendono decisioni e impongono ai singoli determinati modelli di comportamento. Spesso, non disponendo di una legittimazione/giustificazione oggettiva per molte delle scelte che vengono prese (quasi tutte a dir la verità), gli unici mezzi che lo stato ha a disposizione per assicurarsi che tali comportamenti vengano rispettati sono il controllo (strettissimo ed oppressivo) e la violenza.

Antitesi: lo stato, però, non è nè onniscente, nè onnipresente e nemmeno potrà mai esserlo (almeno si spera). Di conseguenza, i cittadini (a volte addirittura molti cittadini), non eseguono ciò che il governo vorrebbe in quanto, nei momenti in cui non sono forzati o controllati, si comportano come meglio credono. Spinto dall’interesse, l’individuo agisce sempre in proprio favore. Quando lo stato lo sorveglia con la forza, esegue gli ordini per non beccarsi le randellate, perciò, quando lo stato non c’è, ne approfitta.

Sintesi: il controllo impone costi abnormi allo stato e, d’altro canto, non risolve il problema perchè l’individuo continuerà ad agire in libertà appena gli sarà possibile. Ovviamente, non eseguendo gli ordini del governo.

Problema: come perpetuare il controllo anche quando lo stato non è presente?

Soluzione: rendere i cittadini controllori di se stessi, proibendo così ogni possibilità di fuga e contemporaneamente rendendoli dei mezzi, prima che dei fini da conseguire. In sostanza, lo stato si rivela per quello che veramente è e che sempre è stato: un’entità che prima di soddisfare gli interessi dei cittadini (spesso molto male) soddisfa egregiamente i propri.

lunedì 4 agosto 2008

Assicurazioni.......che non c'è!


Nel 2000, l’Antitrust ha comminato una “maxi-multa” di oltre 700 miliardi di lire alle compagnie di assicurazioni attive nel ramo auto, accusate di pratiche contrarie alla libera concorrenza. Quell’episodio riguardava uno “scambio d’informazioni” considerato come la prova dell’esistenza di un cartello. Davvero quella sentenza provava l'assenza di concorrenza?
E, soprattutto, qual è la linea di confine fra la collusione, ed il tentativo di una o più imprese di stimare nel modo più accurato i rischi? Lo “scambio d’informazione” è sempre sanzionabile? Le assicurazioni in Italia sono effettivamente un cartello, come del resto sono state considerate in diverse decisioni Antitrust ma pure dai ''decreti Bersani''.
Il mondo dell’Antitrust è spesso, come ebbe a scrivere Alan Greenspan, il mondo di Alice nel Paese delle meraviglie, “dove ogni cosa allo stesso tempo apparentemente è e non è”.

"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )