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lunedì 24 dicembre 2007

Il prezzo indigesto del cibo


C’è stata la rivolta delle Tortillas in Messico, la protesta della cipolla in India, ora c’è la Russia che mette i dazi all’export di pane, grano, formaggio e olio, mentre l’Italia, nel suo piccolo, ha vissuto un inedito sciopero della pasta. La micidiale combinazione dell’aumento dei listini energetici, della domanda galoppante di cibo nelle economie in forte sviluppo e dell’evidente cambiamento climatico ha fatto salire il prezzo globale del mais del 30 per cento in un anno; il riso è andato su del 23% mentre burro e latticini si sono elevati di almeno 15 punti. In tempi di pace relativa non è mai stato così costoso mettere insieme un pasto decente. Dopo che la crisi finanziaria della scorsa estate ha confortato chi teneva euro e dollari sotto il materasso, la corsa dei prezzi mondiali dei prodotti alimentari potrebbe persuadere qualcuno a conservare sfilatini, mozzarelle e spaghetti ben chiusi in frigoriferi formato cassaforte.

Per l’occasione gli economisti hanno coniato un neologismo, la chiamano «agflazione», termine orribile che implica un aumento dei prezzi scatenato sul fronte agricolo. Se ne sentirà parlare per un pezzo. Del resto la resa incondizionata ai rincari l’ha siglata il settimanale globale «The Economist», sparando in copertina una fetta di pane biscottato smangiucchiata in coppia con uno sconsolante titolo, «La fine del cibo a basso costo». I dati sono avvilenti. La Fao rivela che i listini alimentari a livello mondiale sono cresciuti nel 2007 del 40 per cento. In Europa la tendenza è più contenuta, a novembre il dato segnala un incremento anno del 4,3 per cento, ma ciò non toglie che la stangata sia dolorosa. L'inflazione vola, i tassi seguiranno. Pessima spirale.

L’Oriente vorace
Che cos’è successo? «Di tutto», rispondono gli economisti. Il progresso disordinato in Asia, la Cina che corre con un Pil a due cifre e l’India che va appena più piano, hanno elevato il livello della domanda di beni primari di popoli che sino a pochi anni fa erano a stecchetto o quasi. Immediato l’effetto sui prezzi. A Pechino si scopre che in dodici mesi gli alimentari sono diventati più salati del 17,9 per cento, con punte del 60 per cento per l’amatissimo maiale, ora più agro che dolce. Da quelle parti le abitudini alimentari sono diventate occidentali. Il consumo di carne è salito del 50 per cento rispetto agli anni Novanta.

L’estremo Oriente consuma come non ha fatto mai. Il boom demografico e la transizione alimentare portano nei negozi un numero stellare di clienti. Il prezzo mondiale del mais ha raggiunto il massimo da dieci anni in febbraio, poi è lievemente calato. I listini delle farine si sono impennati del 22 per cento e quelli delle oleaginose addirittura del 70 per cento. A novembre il grano statunitense (numero 2 all’esportazione) era di 332 euro alla tonnellata, il 52% più di un anno prima. L’Europa, che per decenni è stata esportatrice netta di cereali, è appena diventata importatrice netta. Da noi, in novembre, su pane e pasta sono rincarati rispettivamente del 12,1 e del 7,6 per cento.

I raccolti sono quelli che sono. Li rende più gracili il cambiamento climatico, le piogge e i tifoni hanno quasi in ginocchio l’Australia la scorsa estate. Il forte aumento del petrolio ha proiettato al rialzo tutti i prezzi agricoli, sia perché ha spinto all’insù i costi di produzione, sia perché - sopratutto negli Usa - ha allargato l’utilizzo delle colture impiegate per i biocombustibili: la richiesta del diesel verde dovrebbe passare dagli attuali 15 milioni di tonnellate annue a 110 milioni nel 2016. La debolezza del dollaro nei confronti delle principali valute planetarie ha in qualche diminuito l’impatto sulle economie fuori dall’universo del biglietto verde. L’effetto, si teme, potrebbe essere limitato nel tempo.
Le scorte di mais si sono ristrette in pochi anni del 30 per cento. L’autonomia alimentare teorica garantita delle scorte, cioè il tempo che ci sarebbe consentito per mangiare ancora se la produzione si fermasse di colpo, è sceso da undici a otto settimane in sette anni. Fa paura vedere che sono le materie più elementari a essere sotto tiro. Le scorte di cereali sono a 420 milioni di tonnellate, il livello più basso registrato dal 1983. Nel frattempo le bocche da sfamare sul globo terracqueo sono diventate oltre sei miliardi.
Bisogna mettere mano alla manutenzione del pianeta. Desertificazione e catastrofi significano minori terreni agricoli. Ma anche le imprese non possono continuare ad aumentare i margini. Pochi giorni fa un economista raccontava il caso di una nota casa di pasta italiana che ha aumentato i listini del 10 per cento e in Germania del 40. Serve un’attitudine diversa e globale, rispetto ambientale, etica dell’industria, controllo della domanda e dell’offerta. La situazione è chiaramente grave, la manna sta finendo anche per i consumatori dei grandi centri urbani. E c’è anche chi prevede scenari di rivolta. Ai popoli che chiedono pane, ormai, non si possono offrire più nemmeno i croissant.

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