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giovedì 27 novembre 2008

Regole: causa, non cura della crisi finanziaria


Di: Roderick T. Long
Oggi intendo spiegare come la teoria austriaca dei prezzi valga per i cicli di boom-bust in generale, e per la presente crisi finanziaria in particolare; e perché, quanti la stanno addebitando al libero mercato, siano rimasti piuttosto indietro.
Ricordiamo che i prezzi di mercato sono il meccanismo che permette ai consumatori di riordinare i beni di consumo per determinare scelte tra i beni di produzione; se i consumatori valutano di più beni prodotti in acciaio che non in gomma, il prezzo dell’acciaio aumenterà rispetto a quello della gomma, e questo incoraggerà la parsimonia nell’uso di acciaio, oltre ad incoraggiarne la produzione di nuovo (Questo è incidentalmente il motivo per cui le leggi contro l’estrazione di materie prime sono una cattiva idea; prolungando la carenza di un bene, i cui effetti si cercano di attenuare, annullando la funzione del prezzo come segnalatore di scarsità. Quando i prezzi sono impediti legalmente ad aumentare durante un periodo di scarsità, è come dire al mercato: “Hey voi, non c’è scarsità, non c’è alcun motivo di risparmiare su questo bene, non c’è alcun motivo di aumentarne la produzione, sentitevi liberi di concentrare altrove i vostri investimenti” - che è ovviamente il peggior messaggio che sia possibile mandare).
I tassi di interesse sono anch’essi una sorta di prezzo; segnalano la misura in cui i consumatori siano disposti a differire soddisfazioni di breve termine per poterne avere di maggiori in futuro. Per fare un esempio, se Crusoe fabbrica una rete sarà in grado di catturare molto più pesce che non con le sue mani, ma il tempo di fabbricarla non potrà essere usato per pescare; se Crusoe può permettersi di rinviare la cattura di alcuni pesci presenti per fabbricare la rete, allora è razionale che lo faccia; ma al contrario, se sta facendo la fame e potrebbe non sopravvivere alle razioni ridotte fino al completamento della rete, allora dovrebbe continuare a pescare con le mani e tenere il progetto di una rete per un altro giorno. Se per lui abbia senso togliere tempo alla pesca con le mani per tessere la rete, dipende unicamente dall’urgenza del suo bisogno di pesce a breve termine, dalla sua preferenza temporale.
In un libero mercato, i bassi tassi di interesse segnalano una bassa preferenza temporale, mentre alti tassi di interesse segnalano un’alta preferenza temporale. Se la vostra preferenza temporale (come l’urgenza che porta a preferire soddisfazioni presenti piuttosto che quelle future) è bassa, allora dovrei offrirvi leggermente più di X tra un anno per indurvi a separarvi da X oggi; se fosse alta, allora dovrei offrirvi molto più di X tra un anno in cambio di X oggi. Il tasso di interesse sarebbe così guidato dalle scelte tra progetti di breve termine, meno produttivi, e quelli più produttivi, di cui però i benefici richiederanno più tempo per essere raggiunti.
Quando però le banche centrali, manipolando l’offerta di moneta, tengono artificialmente basso il tasso di interesse, i segnali vengono distorti; gli investitori sono portati ad agire come se i consumatori avessero preferenze temporali inferiori di quanto non abbiano realmente. Pertanto gli investitori sono spinti ad investire in progetti che poi nel lungo termine si rivelano insostenibili, in quanto il consumo differito in questi progetti non viene realmente differito, così che i beni che gli investitori stanno calcolando per completare il progetto di lungo termine non saranno tutti disponibili quando serviranno loro. Questo insostenibile investimento è il boom, o la bolla; il bust viene quando l’insostenibilità viene riconosciuta ed inizia un costoso processo di liquidazione.
La teoria austriaca del ciclo economico è talvolta chiamata in maniera fuorviante “teoria dell’eccesso di investimento”. Il problema non sta nell’eccesso di investimento, ma nel fatto che lo fanno in progetti di lungo termine ad alto rendimento e sottoinvestono in progetti a minor rendimento di breve termine. Ecco perché gli austriaci parlano di “malinvestment” piuttosto che di eccesso di investimento. La tendenza prevalente del mainstream di trattare i capitali come omogenei ignora la differenza tra più alti e più bassi livelli nella produzione di beni, non può quindi apprezzare i costi di passaggio dall’alta alla bassa quando la bolla scoppia.
Oltre alla cattiva allocazione degli investimenti tra input di livello superiore o inferiore, l’inflazione monetaria produce ulteriori squilibri. Quando la banca centrale crea moneta, la nuova moneta non si propaga in tutta l’economia istantaneamente; alcuni settori settori ricevono per primi la nuova moneta, quando sono ancora di fronte ai vecchi prezzi, inferiori, mentre gli altri settori ricevono la nuova moneta per ultimi, dopo aver già subito l’aumento dei prezzi. Il risultato di questo “effetto Cantillon” non è solo la sistematica redistribuzione della ricchezza verso i soggetti favoriti, ovvero le banche ed il governo, ma anche la stimolazione artificiale di alcuni settori, facendoli apparire più redditizi di quello che siano realmente, e dirigendo verso di essi livelli di investimento ingiustificati dal punto di vista economico.
E’ vero, come viene spesso sostenuto, che la descrizione resa dagli economisti austriaci sottostimi l’abilità degli investitori e degli imprenditori di riconoscere gli effetti delle politiche del governo, e di compensarle? No: anche sapendo che un certo prezzo rappresenta un mix tra genuini segnali di mercato e distorsioni politiche, si potrebbe non sapere quale parte del prezzo rappresenti questo fattore, perciò come è possibile compensare la distorsione? (Allo stesso modo, se si conosce un’anomalia magnetica nella zona in cui si sta usando una bussola, l’informazione non è esattamente di grande aiuto se non si conosce l’esatta posizione dell’anomalia e la sua forza rispetto al campo magnetico terrestre; diversamente non ci sono altri modi per correggerla. E dato che la direzione della bussola è almeno in parte verso il vero nord, si preferisce fidarsene nonostante le distorsioni, che non semplicemente abbandonarla e procedere tirando la monetina).
Nella visione austriaca, l’inflazione governativa dell’offerta di moneta attraverso l’abbassamento artificiale dei tassi di interesse, è stata la causa principale della Grande Depressione. (Questo è controverso per gli economisti mainstream, i quali non ritengono la politica della Fed compiutamente inflazionistica, dal momento che i prezzi rimasero relativamente stabili nel periodo precedente al crash. Per gli austriaci la questione cruciale non è però se i prezzi fossero più elevati rispetto quanto fosse successo in precedenza, ma se questi fossero stati superiori rispetto a quello che sarebbero stati in assenza di inflazione monetaria). Similmente secondo gli austriaci, la bolla immobiliare che ha scatenato la crisi odierna, è un prodotto della politica di bassi tassi di interesse praticata dalla Federal Reserve negli ultimi anni. (Una precisazione per evitare un frequente malinteso: dal punto di vista austriaco non c’è nulla di sbagliato riguardo i bassi tassi di interesse di per sé; infatti essi sono un sintomo di una economia sana, in quanto più prospere sono le persone e più sono disponibili a rinviare il consumo attuale. Ma non è possibile rendere un’economia sana inducendo artificialmente i sintomi della salute, in assenza delle loro motivazioni sottostanti. Allo stesso modo, l’assenza della scabbia sulla pelle è un sintomo di salute, ma non è possibile promuovere la salute strappando via le croste: prendano nota i difensori del salario minimo).
Nel 1920, mentre gli economisti mainstream proclamavano che i prezzi delle azioni avevano raggiunto un “altopiano permanentemente alto”, Mises e Hayek stavano prevedendo un crollo (come del resto fece anche mio nonno, Charles Roderick McKay, che come vice governatore della Federal Reserve Bank di Chicago, protestò contro la politica dei tassi tenuti artificialmente bassi, e riuscì a tenere fuori la succursale di Chicago dalla politica del denaro facile, fino a quando la sede centrale non provvide ad annullarne le scelte. Aveva previsto i probabili risultati, e se ne andò di corsa dal mercato azionario ben prima del crollo); analogamente in questi anni gli austriaci hanno insistentemente avvertito di una bolla immobiliare, mentre gente come Greenspan e Bernanke insisteva allegramente nel dire che il mercato immobiliare fosse solido.
Ora tutti vanno dicendo, molto ragionevolmente, che in questa crisi dobbiamo evitare gli errori che hanno dilatato la Grande Depressione; il problema è che questo è del tutto inutile senza l’accurata comprensione di quali siano stati questi errori. Dal punto di vista austriaco, l’attuale piano di iniettare più “liquidità” nell’economia equivale semplicemente a trattare la malattia con una dose più massiccia del veleno che l’ha causata. Il tentativo di curarla attraverso la simulazione artificiale dei sintomi della salute è, letteralmente, la voodoo economics.
Ovviamente la responsabilità non è tutta della Federal Reserve; ci sono molte altre politiche del governo che hanno incoraggiato i prestiti rischiosi. C’è stata una certa attenzione dei media ai cambiamenti, durante la presidenza Clinton, del Community Reivestment Act, ad esempio, il quale incoraggiava standard di prestito più lassisti al fine di attirare mutuatari provenienti dalle minoranze. L’affermazione che questa spiegazione è “razzista” significa confondere la ragione per cui concedere un prestito è rischioso, con quella per cui un prestito, nonostante sia rischioso, viene concesso; allo stesso modo, concentrarsi su questo esempio ristretto manca di mostrare il quadro generale, cioè che quando il governo federale è lo sponsor delle corporations del credito di massa come Freddie Mac e Fannie Mae, questo crea aspettattive (codificate legalmente o no) che sarà esso stesso a garantirne la solvibilità. Proprio come con la crisi dei risparmi e dei prestiti degli anni ‘80, l’aspettativa di rimborso in caso di fallimento ha incoraggiato i prestiti rischiosi, perché tale rischio è socializzato. (E aldilà di questo, ci sono i fattori più profondi che limitano le possibilità per la stragrande maggioranza e le rendono necessario accendere mutui per comprare una casa; dando per scontato che questa necessità richieda una giustificazione).
Anche George Bush, nel suo discorso sulla crisi, ha riconosciuto (o ha letto le parole di persone che hanno riconosciuto) che l’aspettativa di un salvataggio imminente, se necessario, ha contribuito ad incoraggiare i prestiti rischiosi – tuttavia sono sembrate sfuggirgli le ulteriori implicazioni del fatto che sollecitando il bailout ha confermato e rafforzato le aspettative che hanno aiutato ad alimentare la crisi – ponendo così i presupposti per ripetere la crisi in futuro.
Il granello di verità nell’altrimenti ridicolo mantra statalista sulla crisi causata dalla “mancanza di regole” è che quando la regolamentazione A garantisce ad un’impresa privata o semi-privata il diritto di giocare con i soldi della gente, ma non riesce ad applicare la regolamentazione B che restringe il potere dell’impresa di prendere rischi eccessivi con quei soldi, la conseguente crisi è in un certo senso attribuibile alla mancanza di regolamentazione B. Ma il fattore fondamentale non è l’assenza di B di per sé, ma la sua assenza combinata con la presenza di A; l’assenza di B non può essere un problema se intanto manca anche A. Quindi, di certo, c’è stata “insufficienza di regole” se si intende il fallimento del governo per frenare, attraverso ulteriori regolamenti, i problemi creati dalle sue regole iniziali.
Quindi, se il problema è causato da A senza B, si potrebbe obiettare, perché dovremmo adottare la soluzione libertaria di sbarazzarci di A? Non possiamo risolvere il problema semplicemente tenendo A, affiancandole però B? La risposta è no, perché la pianificazione centrale non funziona; quando si risponde a cattive regole aggiungendone di nuove per contrastare le vecchie, piuttosto che abrogarle e basta, si aggiungono sempre più strati tra decisioni e mercato, si imbacucca il sistema di feedback dei prezzi e si rischia il caos nel calcolo economico.
Però, potrebbe obiettare ancora, se noi fossimo in una situazione in cui abbiamo A ma non B, e dove inoltre abrogare A non è politicamente possibile, mentre adottare B lo è – in questo caso non dovremmo premere per aggiungere B? In certe circostanze, dipende dai dettagli, forse è così; però la domanda più importante, a mio avviso, è: dovremmo dedicare più tempo ed energie a cambiare le caratteristiche fondamentali di un sistema fondamentalmente sbagliato entro i parametri di ciò che viene ora considerato politicamente possibile, o dovremmo lavorare per cambiare i parametri stessi? Nelle parole di Hayek: “Quelli che si sono interessati unicamente a ciò che sembrava praticabile allo stato delle opinioni comuni, hanno costantemente trovato come questo diventasse rapidamente politicamente impossibile per effetto di dei cambiamenti nell’opinione pubblica che non avevano mai fatto niente per guidare”.
Va bene, diranno alcuni, forse è stato il governo, non il laissez-faire, che ci ha gettati in mezzo al disordine; ma ora che ci siamo dentro, non abbiamo bisogno del governo per uscirne? La mia risposta è che il governo non è in grado di portarci fuori. Non c’è molto che il governo possa fare per aiutarci (a parte abrogare leggi, regolamenti e sussidi, che prima hanno creato e ora perpetuano il disordine – ma questo significherebbe poco meno che smettere di fare alcunché, e comunque dati gli incentivi che agiscono per spingere il governo ad essere decision-maker non c’è una sola possibilità realistica che ciò accada). Il bailout, il salvataggio, è la semplice deviazione delle risorse dei produttivi poveri e della produttiva classe media, a beneficio dei ricchi falliti, e non sembra una buona idea dal punto di vista etico o economico. L’unico effetto buono che un tale bailout possa avere (a meno che non si preferiscano ai costosi boondoggles [i celebri e bizzarri programmi inutili del New Deal, N.d.T.] senza pile di corpi morti a fianco, i costosi boondoggles con) è convincere i guerrafondai che non ci si può permettere una guerra globale contro il terrorismo in questo momento – ma non c’è alcun segno che si siano convinti di una cosa del genere.
Se il sistema dei prezzi fosse stato autorizzato a funzionare pienamente, la crisi avrebbe risolto sé stessa – non istantaneamente o senza fare alcun male, certo, ma infinitamente più velocemente di quanto il governo possa mai manovrare. Quello che il governo dovrebbe fare è, in ultima analisi, nulla.
Ma una tale risposta sarebbe politicamente impossibile? Praticamente è vero; ma cosa lo rende tale? Sono le tendenze corporative del popolo americano? Il congresso ha votato il bailout perché gli elettori lo reclamavano? Al contrario, la maggior parte degli elettori sembrava decisamente contraria ad esso. Il bailout è passato perché il congresso prima di tutto risponde non agli elettori, ma al big business. E questa è la fonte dell’impossibilità politica, che non deriva da una ideologia variabile, ma dalla natura stessa del governo rappresentativo. Un governo responsabile verso il popolo potrebbe essere difficilmente un paradiso (dato che le persone sono difficilmente libere da ignoranza e pregiudizi, e che il volere della maggioranza è troppo spesso un meccanismo per esternalizzare i costi delle preferenze delle maggioranze sulle minoranze) – ma discutere i meriti di un governo genuinamente responsabile verso il popolo è puramente accademico, perché un simile governo, qualunque siano i suoi meriti o demeriti, è impossibile; non è possibile creare un monopolio delle risposte alle persone. Al contrario del mercato, nessun sistema politico è mai stato escogitato o trovato a subordinare l’influenza di interessi concentrati ad interessi dispersi. Il monopolio non può essere “riformato” e deve essere abolito.
Questo non significa, ovviamente, dire che certe forme di governo siano meno indifferenti di altre, così come certe forme di schiavitù sono meno terribili di altre. Una delle caratteristiche più impressionanti della schiavitù nel sud prima della guerra civile, ad esempio, è quanto fosse peggiore, in media, rispetto la maggior parte della forme storiche di schiavitù; e se gli abolizionisti, disperando la prospettiva di liberare gli schiavi, avessero concentrato i loro sforzi per riformare la schiavitù americana per renderla più simile alla schiavitù greco-romana o a quella scandinava medievale, non voglio dire che non sarebbe valsa la pena di farlo o che non avrebbero reso molte vite effettivamente migliori – ma non è regolare le proprie aspirazioni politiche un po’ in basso?

dal blog: http://liberteo.wordpress.com/011/

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