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lunedì 3 novembre 2008

Qualche parola a sostegno dell’evasione fiscale


di
Pierre Lemieux

Quando i giorni della finanziaria si avvicinano, i politici di tutti i colori ci mettono in guardia contro la crescente evasione fiscale da parte dei Canadesi. Prima di parlare dell’aumento della pressione fiscale, il Ministro delle finanze Paul Martin ha affermato che “centinaia di migliaia di persone altrimenti oneste (…) hanno negato il proprio consenso a essere governate”, rifugiandosi nell’economia sommersa.

Il problema è che, a quanto pare, i politici non riescono a dedurre le giuste conclusioni. Bisognoso di liquidi – in realtà, prossimo alla bancarotta – il governo federale, come del resto i governi di alcune province, ha deciso di debellare il nero. Il Ministro del tesoro David Anderson ha dichiarato guerra agli evasori fiscali.

Dopo che i commercianti di Saint-Eustache (nel Québec) si sono opposti alla legge vendendo apertamente sigarette di contrabbando, il leader del Bloc Québécois Lucien Bouchard ha attaccato quella che vede come una nuova cultura dell’imbroglio ai danni dello stato. Evidentemente egli pensa che i cittadini dovrebbero sempre obbedire a chi detta le regole. In effetti, la classe politica mostra una rara unanimità di intenti quando si tratta di ricondurre i canadesi sotto la mazza ferrata del governo.

Tre domande sorgono spontanee.

Primo, come si è sviluppata l’evasione fiscale in un popolo così mansueto come quello canadese? La risposta, naturalmente, va cercata nella pressione fiscale che esso deve sopportare. Il tabacco, sul quale le tasse federali sono cresciute del 150% negli ultimi cinque anni, è solo la punta dell’iceberg. Il prelievo fiscale complessivo da parte di tutti i livelli di governo oggi raggiunge il 40% del prodotto interno lordo del Canada. Se consideriamo anche i debiti, che in fondo rappresentano semplicemente delle tasse future, il governo si prende circa la metà di quanto la gente produce e guadagna in questo paese. In due parole, l’evasione fiscale è una risposta all’invasione del fisco.

E’ possibile trovare un interessante elemento di paragone nel lavoro di William Fogel, Premio Nobel per l’economia nel 1994. Inventore della cliometria, Fogel ha calcolato (nel suo libro del 1974, Time on the Cross) che i proprietari di schiavi del XIX secolo dovevano spendere circa l’88% del prodotto dei loro schiavi per il mantenimento di loro stessi e delle loro famiglie. In altre parole, gli schiavi erano soggetti a un esproprio effettivo del 12% del frutto del proprio lavoro. Ne è passata di acqua sotto i ponti, ragazzi.

La crescita esponenziale della leggi è un altro fattore. Alcune di esse arrivano di pari passo con le tasse: i piccoli imprenditori devono ora dedicare molto tempo alla compilazione di moduli per tasse sulle vendite, e preparare complicati rapporti trimestrali. Non so se la nostra è mai stata una nazione di commercianti, ma di certo stiamo diventando un paese di esattori e ragionieri. Altre forme di regolamentazione – la legislazione sul lavoro, per esempio – rendono il mercato nero assai più semplice ed economico, tanto per i consumatori quanto per gli imprenditori.

La seconda domanda è: come possiamo sopportare una tale pressione fiscale? Cento o duecento anni fa, i grandi pensatori occidentali a cui dobbiamo quella libertà che stiamo abbandonando non avrebbero mai immaginato che questo potesse accadere in un paese libero.

Nella sua famosa Wealth of Nations (1776), Adam Smith scrisse, riferendosi all’Inghilterra: “E’ sottinteso che le tasse sui negozi devono essere identiche per tutti i tipi di negozio. Non potrebbe essere altrimenti. Sarebbe impossibile immaginare un criterio di proporzionalità sufficientemente equo tra la tollerabilità di una tassa e il volume di affari di un negozio, senza contestualmente mettere in atto una forma di inquisizione che sarebbe essa stessa inaccettabile in un paese libero”. Sulla possibilità dell’imposta sul reddito, egli scrisse: “un’indagine nelle faccende private di ogni uomo, e un’indagine che, allo scopo di determinare il giusto livello di tassazione, si impicciasse di ogni cambiamento del vento, sarebbe fonte di continue e infinite vessazioni, tali e tante che nessuna persona potrebbe argomentare a loro favore”.

Quando, recentemente, ho mostrato queste citazioni ai miei studenti, aspiranti funzionari pubblici, all’Ecole Nationale d’Aministration Publicque, uno di loro ha commentato che Adam Smith oggi farebbe scoppiare una rivoluzione. Nonostante il tipico e onesto Canadese faccia fatica distinguere un tiranno da una sedia a dondolo, l’economia sommersa è una forma di pacifica rivolta fiscale.

Nelle sue Lectures on Jurisprudence, Smith aggiungeva: “Non c’è dubbio che la crescita delle tasse a livelli esorbitanti, in pace come in guerra, del 50 o del 500%, in quanto massiccio abuso di potere, sarebbe una giustificazione sufficiente per la resistenza da parte del popolo”.

La terza domanda è relativa alla reazione dello Stato. I politici fanno notare che gli individui che non contribuiscono per “quanto è giusto” concorrono ad aumentare la pressione fiscale a carico degli altri cittadini. La principale critica ai prossimi bilanci federali e provinciali può ben essere di accrescere la pressione fiscale effettiva sotto la copertura del “contributo equo”.
Questo è un ritornello semplicistico, che presuppone che i processi politici e burocratici conducano naturalmente alla determinazione della pressione fiscale ottimale necessaria a finanziare alcuni servizi pubblici richiesti unanimemente. Quello che in realtà accade (almeno se si condivide l’approccio all’economia della Public Choice) è che il governo prenderà tutto quello che potrà, e spenderà quello che il traffico permetterà. I governi rendono soddisfazione ad alcuni gruppi di pressione minori e comprano i voti con le proprie spese. Se i Canadesi che oggi lavorano sul mercato nero cominciassero a pagare le loro “giuste” tasse, semplicemente gli introiti e le spese del governo aumenterebbero della differenza. In quest’ottica, l’economia sommersa è una utile limitazione per il Leviatano, e un beneficio per tutti i contribuenti.

Il Canada ha subito rapidi cambiamenti nel corso degli ultimi decenni. Fateci caso: dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo federale ha notevolmente aumentato le tasse sul tabacco. Naturalmente, il contrabbando crebbe a un livello non molto diverso dall’attuale. Léon Balcer, allora membro del Parlamento federale per Trois-Rivières, nel Québec, dichiarò che sette su dieci dei suoi colleghi fumavano sigarette americane di contrabbando – una prova del fatto che l’individualismo era vivo e vegeto alla Camera a quei tempi. Il governo federale fece saggiamente retromarcia: nel 1952 e nuovamente nel 1953 le tasse sul tabacco furono drasticamente ridotte.

Oggi si parla di ripercorrere la medesima strada, anche se è ancora tutto da vedere se la riduzione delle imposte sarà sostanziale o piuttosto servirà solo come scusa per reprimere il contrabbando. Posti di fronte alla resistenza fiscale, i governi contemporanei cercano principalmente di ottenere nuovi poteri per distruggerla. Questo, penso, è un tradimento della tradizione canadese. I veri Canadesi sono quelle persone che si oppongono pacificamente alla tirannia rifugiandosi nell’economia sommersa. Essi soli mettono in pratica il motto di The Globe and Mail, preso in prestito da Junius: “il suddito che è davvero leale nei confronti del Giudice Supremo non suggerirà né accetterà mai provvedimenti arbitrari”.
Recentemente ho scritto al Ministro federale del tesoro, citando Adam Smith, e gli ho suggerito che il Governatore generale dia una medaglia ai Canadesi colpevoli di essersi ritirati nell’economia sommersa. Non mi ha ancora risposto.

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