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giovedì 16 ottobre 2008

Ideologia e mercato. Un'analisi costruttivistica.


Ideologia e mercato. Un'analisi costruttivistica.
di Luigi Corvaglia

Quando io uso una parola, - disse Humpty Dunty in tono d'alterigia, - essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno.
- Il problema è, - disse Alice, - se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
- il problema è, - disse Humpty Dunty, - chi è il padrone....
Lewis Carroll, Attraverso lo specchio

Alle parole, al contrario che ai numeri, possiamo dare il senso che vogliamo. Non è necessario frequentare persone che hanno avuto la sventura di essere definite psicotiche per rendersene conto. Si pensi all’etichetta “guerra preventiva”. Una delle migliori strategie di riprogrammazione e riforma del pensiero (in slang americano, mindfucking) utilizzata da chi voglia far persuasione coercitiva è proprio la ridefinizione del linguaggio. Tale ridefinizione, come superbamente messo in rilievo da Orwell, è un modo di ridefinire la realtà stessa. In 1984, in un totalitarismo in cui è contemplato lo “psicoreato”, gli inventori della “neolingua” mirano a “semplificare al massimo le possibilità di pensiero”. Esistono sicuramente forme “benigne” di inganno linguistico. La Groenlandia, “terra verde”, è una distesa di ghiacci, l’Oceano Pacifico è decisamente poco pacifico, il Capo di Buona Speranza è un posto che lascia invero poche speranze al navigatore. Qui il ribaltamento ha connotati, se vogliamo, chiaramente - e pertanto venialmente – truffaldini.
La benignità è nel fatto che basta sottoporre a verifica la nostra aspettativa di trovarci in una terra verde, in un mare placido o in una rilassante regata lungo costa con l’esperienza sul campo per invalidare l’idea precedente. Se sopravviviamo, sulla nostra mappa ci è facile annotare che il Capo di Buona Speranza è un posto consigliabile solo ai nemici. E’ ciò che Popper definiva “falsificabilità”. La nostra conoscenza procede appunto in questo modo. Procede aggiornando di continuo le nostre “mappe” grazie alle invalidazioni. Ne deriva che il vero motore della conoscenza è l’errore. E’ l’errore che ci informa sulla non validità della nostra “mappa cognitiva” e ci impone di rivederla. Detta diversamente, cioè con un personaggio de Il nome della rosa di U. Eco, “il dubbio è il nemico di ogni fede”, pertanto è il dubbio, non la certezza, la spinta di ogni ricerca, di ogni indagine. L’importante, quindi, è che le idee siano almeno in potenza invalidabili, cioè falsificabili. Altrimenti la cosa diventa maligna e, in taluni casi, porta a vere metastasi cognitive. E’ il caso delle fedi religiose e politiche. Incluso l’anarchismo.


Ossimori falsi e ossimori veri

Kevin Carson, individualista americano, definisce la propria visione politica, cioè una sorta di mutualismo di stampo proudhoniano, “libero mercato anti-capitalista”. A prima vista, soprattutto ad un europeo intriso di marxismo, la definizione può apparire un ossimoro. Come dire “Capo di Buona Speranza Negativa”. E invece no. Perché si abbia ossimoro è necessario che le due parti della definizione configgano in termini concettuali. Cosa che si pone solo se ai termini “libero mercato” e “capitalismo” diamo delle connotazioni e non se ne diamo altre. Lo abbiamo detto, alle parole, come Humpty Dunty, possiamo dare il significato che vogliamo. Il problema qui, però, è che a inchiodare indelebilmente le etichette sui legni dove sono crocifissi i concetti è il martello delle ideologie. E le ideologie non sono propense a modificarsi neanche in base alle evidenze che potrebbero invalidarle. Le ideologie sono certe, non si discutono, non ammettono dubbi. Cioè, sulla scorta di quanto detto, non ammettono la crescita della conoscenza.
Galileo sapeva di poter dimostrare quanto diceva, se solo i preti avessero voluto guardare nel suo cannocchiale. Ma non vollero. Così, secondo una preponderante massa di critici del sistema economico vigente, libero mercato e capitalismo sarebbero pressoché sinonimi. Il motivo è che l’uno e l’altro vedono la proprietà privata – cioè il “furto” proudhoniano, l’ “appropriazione originaria” di Rousseau – quale base di effettualizzazione. Se si rigetta la proprietà - brutta, sporca, cattiva -, da rifiutarsi sono anche le sue conseguenze. Pensare ad un mercato anticapitalista è, dunque, uno “psicoreato”. Di cui, probabilmente, si è macchiato perfino Proudhon, che dello scambio fu un apologeta. Secondo, invece, i partigiani del liberismo duro e puro, dirsi anti-capitalisti ed essere collettivisti è tutt’uno. Pertanto, persone come Carson – o lo scrivente – sono da contemplare nell’elenco dei parassiti per motivi di attitudine e di dignità.
Esistono molti argomenti logici atti a smontare queste semplicistiche concezioni, se gli interlocutori sono disposti ad accrescere la loro conoscenza, a migliorare la propria mappa cognitiva. Ma, in genere, questi signori, mai sfiorati dall’ombra del dubbio, si palesano quali varie incarnazioni dei preti che rifiutarono di guardare nel cannocchiale di Galileo. Se ci guardassero vedrebbero che l’etichetta “libero mercato” descrive la concezione di autopoiesi, libero confronto e sperimentazione, sociale ed economica, che è cara ai libertari di ogni “obbedienza”. Il capitalismo, di contro, è termine storico che designa lo strutturarsi di un sistema sclerotizzato di sfruttamento grazie all’intervento statale nell’economia, cioè, non più come sistema autopoietico e cibernetico. In definitiva, il capitalismo è esattamente l’opposto del libero mercato. Lo diceva Korzbinsky in un abusato aforisma: la mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata. Sono i concetti vivi che scalciano una volta imbrigliati nelle etichette morte.
Un esempio storico renderà più chiara la distinzione.

Ode alla Grecia ( la storiella mi assolverà)

Con la rivoluzione del 1821 la Grecia si liberò della dominazione turca che si protraeva da circa quattro secoli. Estremamente interessante leggere una descrizione di quanto avvenne nella fase di "vuoto di potere" succedutosi alla cacciata degli ottomani. La gestione del territorio, infatti, fino ad allora in mano ai rappresentanti del potere ottomano, una volta cacciate le nobili famiglie turche che detenevano le terre presso le quali gli autoctoni lavoravano in condizioni di semi schiavitù, erano diventate res nullius.
Se in Oklahoma furono organizzate delle competizioni per accaparrarsi la terra durante la corsa all'Ovest, in Grecia, nella provincia dell'Elide, il problema della distribuzione della terra fu risolto dividendola in lotti, ad opera degli stessi abitanti, e, come procedura per l'assegnazione, si organizzarono delle corse con i cavalli.
La cosa funzionava così: ogni famiglia esprimeva un cavaliere, e terminata la gara, il vincitore avrebbe scelto la porzione a lui più congeniale. Il secondo classificato sceglieva un altro lotto, e così via, fino che tutte le terre coltivabili non fossero state divise.
Le vedove e gli orfani, affinché anch'essi potessero avere una fonte di sostentamento, non dovevano attendere la fine della gara, in quanto le comunità avevano stabilito quali terre assegnargli in precedenza.
In questo modo, cioè in modo autopoietico, senza intervento esogeno e senza particolari frizioni, la vita prese un suo stabile ritmo, e i braccianti, per la prima volta dopo secoli, divennero “proprietari” delle terre che coltivavano. Il surplus di produzione che in pochi anni fu realizzato grazie alla fertilità della terra rese possibile l’inizio degli scambi con altre regioni e paesi stranieri. La vita procedeva tranquilla. L’amministrazione delle comunità affidata alle riunioni di rappresentanti non professionisti (capifamiglia, anziani, ecc.) e, cosa che dispiacerà ai fans di Hobbes, pur in totale assenza di polizia, gli atti di reciproca aggressività assolutamente limitati. Ma il giorno arrivò. il governò centrale di Atene finalmente si diede una struttura, emanò le prime leggi, e formò un esercito nazionale. il potere, in altri termini, si coagulò nella forma della dominazione. “Stato” è il termine che indica "chi ha il monopolio della forza su un dato territorio". La definizione è di Walter Benjamin. Una delle prime leggi emanate riguardava la nazionalizzazione delle terre. Procedura molto democratica. Infatti, durante la gloriosa guerra di Spagna, anche gli anarchici parteciparono al governo che emanò il decreto di collettivizzazione operaio del governo autonomo di Catalogna. “In nome del popolo greco”, tutte le terre divenivano proprietà dello stato.
Il primo compito dell'esercito ellenico neoformatosi fu di espropriare con la forza le terre ai contadini che nel frattempo le avevano lavorate. In nome del popolo, ovviamente.
Quelle stesse terre, poi, furono rivendute dal governo, e finirono in gran parte in mano ai grandi latifondisti dei quali il governo stesso era espressione ed emanazione. Qualche contadino riuscì a ricomprarsi la propria terra, ma le tasse che nel frattempo il governo aveva imposto rendevano impossibile trarre guadagno dalla coltivazione diretta di piccole proprietà. Per tale motivo, questi dovettero subito rivendersele per ritornare a fare i braccianti. Ma ora i padroni non parlavano più turco, parlavano greco. Su queste basi è nato il moderno stato greco, liberale, democratico e capitalista (fino alla parentesi del regime militare).
Questa storia greca ha, come le favole del conterraneo Esopo, una morale? Si. Questa storia istruisce. Non ci insegna certo che sia da ricercarsi l’arcadia agricolo-pastorale, la “buona selvatichezza” rousseauiana o simili romanticismi da salotto radical-chic. E’, infatti, una storia che riguarda una organizzazione sociale che è più "comunità" che "società", nel senso di Tonnies, con tutti i difetti connessi a ciò. Però, le vicende dell’anarchia greca offrono numerosi spunti di riflessione. Ad esempio, sembra che l' "ontogenesi" dello stato greco ricapitoli, per così dire, la "filogenesi" della statualità storica. In altri termini, rappresenti la replica a uso e consumo dei moderni dell'opera di conquista del territorio che generò il leviatano. Non già, quindi, di quella evoluzione darwiniana dalla selvaggia orda primordiale allo stato perfettamente evoluto a seguito di un' improbabile accordo universale; cioè quella cosa che Rothbard definì ironicamente "l' immacolata concezione dello stato". Ciò che, però, più conta ai fini del nostro discorso è che la divisione dei “mezzi di produzione” e delle ricchezze non avveniva mediante atti violenti (i "mezzi politici" di cui parla Hoppenheimer), ma in base ad un comune accordo (i "mezzi economici") che, senza pudori, si può definire mercato, ma che si ha estrema difficoltà a definire capitalismo. Non nel senso “volgare” del termine.
Con ciò, ribadiamo, non si vuol affatto dire che sia auspicabile un ritorno a forme sociali più semplificate e, quindi a sistemi di scambio meno soggetti allo “sfruttamento capitalistico”. No, le preferenze sono individuali e la società non fa che organizzarsi sulla base di queste. Solo il moralismo che contraddistingue chi è uso rifiutare di guardare nei cannocchiali può ardire di porsi a missionario che annunci questo o quel rigore. Di questa schiera fanno spesso parte gli anarchici classici, di tradizione socialista, i quali, invece, spacciano per alternative alle logiche di mercato situazioni di mercato primitive, compra-vendita equa e solidale, autoproduzioni. Queste, in realtà, sono piena espressione del libero scambio, cioè di un sistema basato su incentivi individuali, non certo su moralità esogene impostegli. Si tratta di mercati, solo più piccoli e meno redditizi. Minor godimento, si deduce, minor peccato. Una comune in cui viga la gratuità rientra perfettamente nella logica di un “mercato” similmente inteso.
No, con questo discorso si vuole portare l’attenzione soprattutto sull’altro polo della questione, quello statale, cioè sul fatto che il primo gesto che lo stato appena formatosi ha compiuto è stato togliere le terre ai contadini che le coltivavano e il concederle ai ricchi protettori latifondisti, che con i loro mezzi avevano permesso la formazione della elite governativa. E le tasse, imposte dal governo centrale per il proprio mantenimento, hanno fatto in modo che non risultasse più vantaggioso per i piccoli proprietari il mantenimento dei loro limitati possedimenti. Ciò ha posto le basi per un’economia, quella che ha prodotto Onassis, che, per quanto più “arretrata” rispetto alla gran parte di quella dell’Occidente residuo, può dirsi di tipo capitalistico, per quanto si abbia difficoltà a definire “di libero mercato”. Messa così, si badi, sono anti-capitalisti anche i cosiddetti anarco-capitalisti. Insomma, il dato storico ricalca perfettamente il noto criterio che David Friedman utilizza per descrivere cosa è mercato e cosa no. E’ mercato qualunque situazione in cui le risorse vengono utilizzate in base a regole condivise – qualunque regola, inclusa la corsa coi cavalli – ed è non-mercato ogni situazione in cui il problema venga risolto con la forza. Quest’ultimo, dice Friedman, è talmente poco conveniente che “viene utilizzato solo da bambini piccoli e grandi nazioni”. Appunto.
La questione sulla quale questa storia ci invita a riflettere, in definitiva, è: favorisce di più il privilegio e l'accumulazione illegittima la libera contrattazione - da sempre accusata di essere il terreno di coltura del "capitalismo da rapina" - o la regolazione dell'economia sotto la tutela di organizzazioni sovrapersonali – sia uno stato (liberal-democratico a proprietà privata diffusa o socialista a “capitalismo di stato”), sia perfino un governo su modello del "Comitato delle Milizie" spagnolo -, teorico garante dei "diritti" di tutti i "cittadini"? Ognuno è libero, ovviamente, di pensarla come vuole, ma chi ritiene che la prima condizione sia auspicabile e la seconda deleteria persegue un “libero mercato anti-capitalista”. Grazie di aver guardato nel cannocchiale.


Conclusioni: la realtà non è vera

"Abbiamo una regola. Marmellata domani e marmellata ieri, ma mai marmellata oggi." "Ma qualche volta ci deve essere il giorno della ‘marmellata oggi’," obiettò Alice. "No, no, impossibile," disse la Regina. "La marmellata è prevista a giorni alterni e oggi, sai, non è affatto giorno alterno, lo vedi da te."
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

Alice al tè dei matti dice “è certamente la mia lingua ma io non la capisco”. Difatti, una povera organizzazione psichica, oltre a rendere le etichette, i “significanti”, di scarsa utilità nel definire i significati, comporta anche che la logica si sviluppi sulla base di sillogismi che hanno come premesse e come conclusioni sentenze discutibili. Sentenze espresse sulla base di “costrutti” poveri, direbbe George Kelly, fondatore del “costruttivismo cognitivo”. E sentenze povere generano mindfucking. Self-mindfucking. Come già detto, ci aveva avvertiti Korzbinsky. Ce lo ha poi ricordato Gregory Bateson. La mappa non è il territorio. Ogni essere vivente, nel conoscere la realtà, la costruisce. Naviganti nel mare magnum, viandanti nel paese delle meraviglie, noi tracciamo mappe col solo fine di costruirci uno spazio per orientarci e prevedere gli eventi. Non esistono mappe più vere di altre. Esistono però mappe migliori di altre. Esistono mappe più articolate, più ricche, che reggono meglio alle invalidazioni e riescono ad avere maggiore capacità predittiva. Che, continuando la metafora, non ci fanno perdere con troppa facilità. Ora, i costrutti sono binari. Bello e brutto, capitalismo e socialismo, libero mercato e pianificazione, individualismo-socialismo, razionalità e trascendenza, ecc. Un sistema di costrutti semplice avrà dei problemi davanti alle invalidazioni. Per un tizio convinto dell’esistenza del plusvalore, l’idea che sia più “socialista” il mercato dello stato è cognizione che si vorrebbe non incontrare, soprattutto se la struttura è semplicemente “comunismo-capitalismo”. Se cade l’una non rimane che l’altra. Come Bandler & Grinder dicono di chi si trova in queste impasse, “la difficoltà non sta nel fatto che essi effettuano la scelta sbagliata, ma che non hanno abbastanza scelte: non hanno un'immagine del mondo messa a fuoco con ricchezza". Gli Innuit (eschimesi) dispongono di circa duecento parole per definire la neve nelle sue diverse manifestazioni, le quali sfuggono a chi non ha tale elemento quale unico ambiente. La mappa dell’innuit non è più vera, è più adatta a orientarsi nel suo ambiente. Edward Konkin III, conosciuto per essere il fondatore della corrente anarchica nota come “agorismo”, descrive tre tipi di imprenditore: 1: l’imprenditore (buono), che corre rischi, innova, è vera forza produttrice e progressista; 2) il capitalista non statalista (neutrale), relativamente poco innovatore; 3) il capitalista statalista (cattivo) definito “il più grande male del regno politico”. Non siamo molto distanti dal pensiero del “socialista” Carson. Bene, quella di Konkin non sarà la ricchezza del dizionario Innuit alla voce neve, ma è già ben più del costrutto elementare di capitalista - sempre cattivo “a sinistra” e sempre buono “a destra” - generalmente utilizzato. La semplificazione del pensiero, si ricordi, era il fine della neolingua orwelliana.
Preservare costrutti inadeguati è possibile tramite l’elusione (“non ci guardo nel cannocchiale”), l’immunizzazione (“sarà una deformazione della lente”) e l’ostilità (“Il cannocchiale te lo do in testa”). Crescere in complessità, invece, prevede la disponibilità all’esplorazione, la tendenza a mettere a rischio i proprio costrutti, invalidarli, creandone di nuovi più articolati, più comprensivi, più fini, che rendano le successive invalidazioni più rare e meno traumatiche. Significa, insomma, creare incessantemente sé stessi ed il mondo anche a costo di dolorosi riaggiustamenti (gli “accomodamenti” di Piaget). Non è facile, certo, ma è il minimo che si possa chiedere a chi si definisca “libertario”. Altrimenti, diceva Korbinzsky - “Ci sono due modi di attraversare facilmente la vita: credere ad ogni cosa o dubitare di ogni cosa. Entrambi ci salvano dal pensare.”

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"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )