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mercoledì 24 settembre 2008

Intervista a un left-libertarian


Riporto di seguito l'intervista che mi ha gentilmente concesso Luigi Corvaglia, definito da Guglielmo Piombini un ultra-left-libertarian. Un'intervista, questa, che si propone di stimolare il dibattito all'interno del libertarismo italiano troppo spesso appiattito su posizioni "dogmatiche" non sempre condivisibili.

Si parla tanto di right/left-libertarian, libertarismo, anarchismo di destra e di sinistra. Tu ti definisci (o ti hanno definito) un left-libertarian. Questa dicotomia destra-sinistra all'interno del libertarismo stesso dipende soltanto da una visione diversa riguardo la redistribuzione dei diritti di proprietà (chi vi vede un fallimento del mercato e chi no) o v'è qualcosa di più?

Come con tutte le etichette, che sono scorciatoie semantiche, il senso è più chiaro in chi le emette. E' però necessario cercare di fare comunque un pò di ordine. Una cosa è parlare di anarchismo "di destra" e "di sinistra", altro di right o left "libertarianism". Infatti, è invalso l'uso di schematizzare la cosa nei seguenti termini: gli anarchici "tradizionali" (intendo l'anarchismo europeo di tradizione socialista, collettivista, ecc.) definiscono tutti gli "anarco-capitalisti" (anche questa etichetta è piuttosto insulsa e ristretta) come anarchici "di destra", e quindi non autenticamente anarchici. Non stanno troppo a sottilizzare su eventuali differenze all'interno del libertarianism di ascendenza yankee e liberale. Non gli interessa. All'interno, invece, di quest'ultimo filone, si usa definire "left-libertarian" un individuo che concorda con la loro prospettiva del liberismo integrale ma che, nello stesso tempo, sia interessato a preservare un certo egualitarismo e ad evitare sperequazioni ingiustificate. In realtà, un tipo così non può essere definito nè "anarchico" (nel senso europeo), nè "anarco-capitalista", perchè, come mi faceva notare Fabio Nicosia, non esiste in nessuno scritto di autori "left-libertarian" cenno sulla loro concezione dello stato.
Quanto a me, la definizione affiabbiatami da Guglielmo Piombini è nuova: "ultra-left-libertarian". Ne colgo il senso. Vuol dire che, pur appartenendo ad un ambito culturale che lui definirebbe "socialista", le mie concezioni sul mercato configurano una posizione di tipo "liberale" e anti-collettivista. Ritengo che non ci sia bisogno di rivolgersi a Rothbard per arrivare a questo. Bastano Proudhon, Berneri, Tucker, Merlino e, perchè no, anche Armand o Nettlau, se li leggi bene. Tieni conto che molti di questi autori si definivano socialisti. Quindi non sono "promosso" (o "bocciato", dipende da chi mi giudica) al rango di anarco-capitalista perchè rimango ostile ad alcuni dei pilastri della teoria "paleo-libertaria" (ancora un'etichetta); fra questi, che lo sfruttamento sia un concetto senza senso, o che il libertario debba per forza di cose abbracciare una visione conservatrice, laddove non addirittura papista, oppure che le "nazioni per consenso" immaginate da Rothbard e che hanno fatto avvicinare alcuni teorici nostrani a posizioni padaniste e quasi xenofobe siano la via maestra della libertà. Ciò non toglie, però, che ci siano autori d'area "free market" che non condividono questo modo, prioritario in Italia, di intendere il libertarismo.


Certamente si può evidenziare un certo "bigottismo coatto" all'interno dell'area paleolibertarian magari dovuto più ad un tradizionalismo derivante dalla matrice evoluzionistica della legge naturale dei giusnaturalisti à la Rothbard (o meglio dai filosofi moralisti scozzesi a John Locke in poi)

si, ma non lo vedo come l'esito obbligato della matrice evoluzionista.

è pur vero però che per quanto riguarda il concetto di sfruttamento bisogna andare molto cauti. C'è il rischio che si prefiguri come sfruttamento un semplice scambio di beni o servizi tra due parti in cui il vantaggio che ne scaturisce per una parte sia molto maggiore rispetto a quello per l'altra.

Sono pienamente d'accordo. Non ritengo che il concetto di sfruttamento sia applicabile alle transazioni di mercato. Io parlo di un livello "meta". Nicosia ritiene che, se la terra viene considerata in origine come res communis e non come res nullius, come vorrebbero i rothbardiani, l'appropriazione del primo recintatore "rousseauiano" comporta una retribuzione a tutti i non proprietari, senza la quale già quella prima appropriazione è "ingiusta". Da una serie di "peccati originali" non può che derivare un "bias", la riproposizione dell'errore lungo tutta la scala. Ciò non toglie che, in "second best", molto meglio una relazione, per quanto viziata, di libero accordo fra parti diseguali, di qualunque equilibratura di tipo esogeno.


Hai nominato autori che come appunto hai detto si definivano essi stessi socialisti. Come si può combinare l'essenza anarchica del liberalismo integrale con il cliché oggi comunemente immaginato filo-statalista del socialismo?

Il "socialismo" di autori come Tucker o Merlino è da intendersi in un senso ben differente, come differente è il concetto di "capitalismo". Con quest'ultimo intendevano riferirsi non ad un sistema basato sull'accumulo del capitale e così via, bensì ad una casta "politica" costituita dai monopolisti innervati allo stato, cioè alla cancrena politica che impediva il libero mercato. Socialismo era quindi, per questi autori - ma anche per Proudhon -, una condizione di eguaglianza nell'accesso al credito e la distruzione dei cartelli e delle rendite parassitarie, possibile solo senza stato. Libero mercato e socialismo finiscono così per coincidere.


Nel passaggio da una società basata sull'ordine statuale ad una società libera deve essere riportato nell'ambito privatistico l'esercizio di tutte quelle attività in precedenza di esclusiva competenza dello stato o alcune vanno eliminate completamente?

Io, per esempio, sono fra quanti ritengono il carcere e l'intero sistema penale come qualcosa di aberrante. Però credo che niente debba essere deciso "a-priori", sulla base della weberiana etica dei principi. E' chiaro che tutto quello che è richiesto dal "mercato" debba essere legittimamente fornito. Una volta disfattici dello stato, si potranno sperimentare dei sistemi alternativi di mediazione dei conflitti (e parlo di sistemi al plurale, perchè anch'essi sottoposti a regime di concorrenza). Così, a differenza della buona parte dei "libertarians", che ritengono il welfare qualcosa di cui disfarsi senza mezzi termini, noi (su questi temi stiamo lavorando con Nicosia, LaConca e altri) stiamo immaginando una transazione al mercato delle funzioni dello stato sociale che permetta di mantenerne le caratteristiche "democratiche". Fra gli ingredienti di questa ricetta ci potrebbe stare l'idea warreniana del costo come limite del prezzo.


Il libertarismo nasce con l'"esperimento americano"?

Beh, qui uso distinguere fra ethos ed epistheme. Mi sembra più corretto. Infatti, tenendo conto di entrambi gli aspetti, possiamo dire che, paradossalmente, il libertarismo ha una breve storia ma un lungo passato. In termini di ethos, l'idea di una sovranità dell'individuo e di una società frutto del libero arrangiamento degli uomini è antica e si può, certo, vederne la più chiara manifestazione nella esplosione di ottimismo della vergine america degli albori. Ma quel grande laboratorio di utopie (rubo la definizione a Creagh) dava luogo alla sperimentazione di idee la cui gestazione era ancora più antica, ritrovandosi i germi di questo pensiero già nel radicalismo liberale inglese. Da questo punto di vista, quindi, si potrebbe perfino effettuare una retrodatazione dell'idea libertaria.
A voler, invece, essere più rigorosi, il libertarismo è un fenomeno moderno, la cui compiuta manifestazione avviene solo con l'opera di Murray Rothbard, perchè, se pur è vero che gli accenti ed i richiami alla tradizione individualista americana, filtrata attraverso tutti gli autori che, dall'ottocento in poi hanno ragionato sui temi della libertà individuale, sia ancora forte in quello che viene definito l'anarco-capitalismo, non si può parlare di libertarismo prima della rivoluzione economica marginalista ad opera della scuola austriaca. Ne è elemento fondamentale e pietra di volta. Per questo motivo, non mi convince il continuo tentativo di arruolare post-mortem gli anarchici ottocenteschi americani nel libertarianism, in quanto operanti in tutt'altra società ed economia e, soprattutto, perchè ancora legati alla concezione del valore-lavoro.


Penso che comunque la rivoluzione operata dalla scuola fondata da Carl Menger segni un passo importante in tutto il mondo libertario, rappresenta in un certo modo un'evoluzione del pensiero anarchico portando al centro delle scienze sociali il problema della formazione spontanea delle istituzioni.

Che l'opera degli austriaci sia stata fondamentale per l'evoluzione del pensiero economico, è verità inconfutabile, ma dire che per l' "anarchismo" il lavoro dei marginalisti abbia rappresentato una occasione di evoluzione mi sembra opinione che sopravvaluta gli anarchici. A parte il libertarianism anarco-capitalista, al quale pure tante storture si possono imputare, le concezioni austriache, mi sembra, non hanno fatto minimamente breccia all'interno del pensiero antistatale. Soprattutto, non in quello di specchiato pedigree continentale. Ne parlavo l'altra sera al telefono con LaConca, il quale mi diceva che, secondo lui, i marxisti, che sono economicamente degli inetti, al cospetto degli anarco-collettivisti, sono dei geni economici. Questa totale ignoranza delle questioni economiche condanna l'anarchismo, nella libreria della storia del pensiero, allo scaffale delle chimere che hanno goduto di un quarto d'ora di plausibilità.
Basta sfogliare un po' delle riviste anarchiche per rendersi conto che la preponderante vulgata libertaria è incentrata su una concezione classista, ottocentesca e pre-marginalista. Una sorta di marxismo senza Marx.
L'autopoiesi, la formazione spontanea delle istituzioni è delegata alla naturale, e generalmente soffocata, spinta di quell'organismo senziente e uniformemente volitivo su cui ironizzava Berneri. Siamo quindi ben lontani dalle critiche all'organicismo ed allo scientismo di un Von Hayek.


La secessione può essere uno strumento importante nella diffusione della libertà o, moltiplicando il numero di stati, di agenzie monopolistiche dell'esercizio della coercizione, tende a diventare controproducente nell'ottica libertaria?
Perché i salentini dovrebbero appoggiare un movimento volto a raggiungere l'indipendenza del salento? Come sensibilizzarli riguardo questo tema?

Si, l'autodeterminazione dei popoli è uno dei fondamenti dell'ottica libertaria e, anche nella tradizione "socialista", si sottolinea molto la logica federalista. Il discorso del Salento, terra assolutamente unica e non omologabile alla Puglia, per cultura, lingua, tradizioni, architettura e quant'altro, è un chiaro esempio di luogo geografico e umano che meriterebbe maggior spirito di autodeterminazione. Abbastanza condivisibile, in linea di massimo, la concezione di Hoppe sulla concorrenzialità fra piccoli stati. Ritengo, però, che il secessionismo di cui si fa alfiere il paleo-libertarismo italiano non tenga conto di quanto lo stesso Bruno Leoni disse, cioè che il padrone vicino non è necessariamente meglio del padrone lontano. Voglio dire, non è affatto detto che, usando un filtro libertario, un piccolo stato sia sempre preferibile ad uno grande. Che quindi sia preferibile un piccolo stato in cui viga l’esclusione e la discriminazione nei confronti di “stranieri”, omosessuali, tossicodipendenti ecc., ad un grande stato che garantisca maggior difesa dei diritti individuali. Eppure i paleo, riescono ad affermare ciò in base alla logica per cui i "tax payers" sono quanto di più vicino esista ai proprietari di un territorio, pertanto, se essi vogliono discriminare, ciò è "libertario".
L’unica discriminante, allora, fra ciò che è desiderabile per un libertario e ciò che non lo è si riduce all’esser quella data cosa “privata” (buona) o “pubblica” (cattiva). Si ha la netta sensazione che, più che tutelare il dinamico ed autopoietico mercato, si miri a difendere la statica proprietà, più che valutare gli aspetti aggregativi del primo, si voglia sottolineare quelli di esclusione della seconda.
Un altro problema io lo vedo nella questione delle "scelte collettive". Insomma, ridotto il leviatano a infiniti leviatani in erba, le scelte pubbliche dovrebbero sempre essere effettuate mediante un voto, magari di democrazia diretta (la critica colpisce anche l'anarco-comunismo di Bookchin e soci, ovviamente), ricreando, certo in scala minore, la dittatura della maggioranza. Ma nel mercato nessuna minoranza è obbligata a soggiacere ai diktat della maggioranza. Non si esce da una concezione territoriale, quando il proudhoniano “federalismo delle differenze” potrebbe configurarsi sul modello della coesistenza che possiamo ritrovare nel mercato, nella libera concorrenza fra sistemi di pratiche e di norme insistenti contemporaneamente sul medesimo territorio, come suggeritoci, per fare un esempio, da Max Nettlau quando propagandava l’idea di an-archia come poli-archia. Capisci che, a questo punto, pur rimanendo l'opzione secessionista praticabile e talvolta dotata di senso, la questione dei "confini" e della sovranità entro tali limiti perde senso.


Quale futuro per il libertarismo italiano? Quali prospettive a breve-medio termine?

Il libertarismo italiano, se sotto questa etichetta vogliamo racchiudere gli anarchismi di destra e di sinistra, mi sembra ostaggio di conventicole piuttosto integraliste. L'anarco-capitalismo, ad esempio, ha preso nel nostro paese una china che potrei definire "teo-con" e reazionaria. Il futuro, dunque, partendo da queste premesse, non mi entusiasma. Credo che vada introdotta anche qui della concorrenza. Alcuni di noi stanno cercando di dar luogo e voce a posizioni critiche, affrancate dai dogmi emanati dalle varie scuole dell'anarchismo, sia esso socialista quanto "capitalista". Quali, dunque, le prospettive? Quanto questa crescente fronda intellettuale comporterà nel dibattito e nelle realizzazioni del libertarismo italiano dipenderà solo dalla nostra capacità di incidere e questa, a sua volta, dalla disponibilità al dialogo da parte dei nostri interlocutori. Pertanto, lo scenario è aperto. Sono fiducioso.

Articolo da: http://salentolibero.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=974429

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Fabio Nicosia... :-DDDDD
Che personaggio comico.... Il teorico dell'anarchismo di centro!!! LOL

Fra lui e Corvaglia non si sa chi le spara più grosse...
Ma qualcuno glielo dice che fanno ridere con le loro castronerie finto-libertarie?

Scommettiamo che alla fine votano entrambi per lo SDI?

Domenico Letizia ha detto...

beh...punti di vista io sono vicino alle loro idee, e non voto.
cmq passa spesso,
ciao
domenico.

Anonimo ha detto...

Ciao Domenico, ti ho "linkato" anch'io :)

Buona giornata!

"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )