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domenica 10 agosto 2008

Camillo Berneri un gran libertario


Berneri era nato il 20 maggio 1897. La salute cagionevole e la madre mazziniana separata dal padre, segretario comunale a Lodi, gli contorsero l'infanzia. Però, in vita modesta ma elitaria, girò con lei l'Italia delle rivolte: tra cuori generosi e menti spregiudicate e tenaci. Quindicenne era seguace del socialista reggiano Prampolini, e nel 1915 si trovò, ad una riunione antimilitarista contro Cesare Battisti, costernato davanti a due manifestanti morti. Poi Torquato Gobbi gli fu maestro, nelle sere brumose lungo la via Emilia, sotto i portici che risuonavano dei suoi baldi tentativi di resistere: convenne d'essere nato anarchico entusiasta. Anche perciò si sposò minorenne, ad Arezzo, con un'allieva della madre.


Appena in tempo per essere arruolato nella Grande Guerra e continuare la propaganda. Scoperto, venne spedito in prima linea e ferito. Quindi, a guerra finita, venne confinato dalla Regia Questura a Pianosa, anarchico schedato. Ne convenne: la società attuale è detestabile, bisognava prediligere la minoranza, parte eletta. A fianco di Malatesta e Fabbri, che l'amavano come un figlio, fu avversario della tirannia fascista. Ma era troppo libero, persino per gli altri anarchici, che paradossali scrivevano al loro leader storico Malatesta, protestando che certe sue idee erano così inattese e fattori di disgregazione interna. Faticò a studiare perché molto miope, ma nel 1922 si laureò con Gaetano Salvemini e divenne amico di Ernesto Rossi, Gobetti e Rosselli. La generalità degli anarchici era atea, lui non pensava a Dio; i più erano per un'economia comunistica, lui voleva la concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e individuali.
Soprattutto, poi, Berneri negava sì l'autorità di ogni Stato centrale, però gliene piaceva molto uno federale e d'autonomie.Giudicava degli invasati i comunisti, ottusi dalle pedagogie dispotiche e bigotti di una operaiolatria che derideva: «Non contenti della "anima proletaria", hanno tirato fuori "la cultura proletaria"».
Leggendo L'Ordine Nuovo , riconobbe le patologie provinciali di Gramsci e se l'immaginava piovuto a Torino dalla nativa Sardegna e preso dagli ingranaggi della metropoli industriale: la letteratura bolscevica russa gli pareva pantografare l'identico processo psichico. Un anarchico così perspicace non poteva piacere ai fascisti, che gli negarono la cattedra e s'abituarono a picchiarlo. Nella primavera del 1926 fuggì quindi in Francia, costretto a umilissimi mestieri per sfamare la moglie e le due bimbette che lo raggiunsero. Berneri riuniva le ingenuità e tutti gli slanci del più puro anarchico con un'intelligenza senza astuzia, e però meditativa. S'accorgeva di quanto fosse malata la ristagnante ossessione settaria, che rovinava la vita degli esuli non meno della miseria. D'altra parte, essendo ingenuo, era predestinato ad esserne la prima vittima. Nel 1928, espulso in Belgio, elogiò l'attentato al principe Umberto di Savoia e, con gli evasi di Lipari di Giustizia e Libertà, fu implicato nel progetto d'attentato al ministro Rocco in visita. Ma si lasciò consegnare proprio dalla spia Menapace un pacco di cheddite e finì altri mesi e mesi in prigione, come gli riaccadde con le riespulsioni in Francia e Germania. La guerra di Spagna lo sorprese nei dubbi, mentre s'era deciso a scrivere «una specie di lirica in prosa delirante». Partecipò ai combattimenti come semplice miliziano, ma i suoi compagni insistettero perché rientrasse a Barcellona: era così miope e sordo; ma soprattutto era più adatto ad altro. Mediò i contrasti tra gli anarchici e Gl; e avversò gli omicidi stalinisti; e quindi Togliatti, che Berneri riconobbe per il professorino pedante, di «perentorietà asinesca», che era. Le gesta che gli costarono la vita. Eppure in Italia abbondano le vie intitolate a Togliatti e agli altri complici dei suoi peccati. Non ce n'è un granché dedicate a Berneri.
Ripetendo In economia Berneri diceva: “sul terreno economico gli anarchici sono possibilisti, sul terreno politico sono intransigenti al cento per cento!” Ovvero, se la critica allo stato e la negazione del principio di autorità erano mete irrinunciabili, la forma economica anarchica doveva rimanere aperta, e che si dovesse sperimentare la libera concorrenza tra lavoro e commercio individuali e lavoro e commercio collettivisti. La collettivizzazione coatta era quindi da condannare se frutto dell'imposizione e non della libera scelta: l'anarchia non doveva portare ad una società dell'armonia assoluta, ma alla società della tolleranza.

Di seguito pubblico una sua lettera a Piero Gobetti, che dimostra quanto labili siano in realtà le barriere tra i pochi che, nel nome della libertà, si oppongono al potere oppressivo dello stato.

Il liberismo nell'Internazionale

di Camillo Berneri


Caro Gobetti,

m'è accaduto più volte, trovandomi a discutere delle mie idee con persone colte, di dover constatare, per le domande rivoltemi e per le obbiezioni mossemi, che il movimento anarchico, che pure fa parte, e non piccola, della storia del socialismo, è o semi-ignorato o malamente conosciuto. Non mi sono, quindi, stupito, leggendo l'articolo del prof. Gaetano Mosca sul materialismo storico, nel vedere annoverato tra i socialisti utopisti il Proudhon, che rimarrebbe mortificato nel vedersi posto a braccetto con quel Blanc, che egli saettò con la più aspra ironia per aver posto “l'Eguaglianza a sinistra, la Libertà a destra e la Fratellanza in mezzo, come il Cristo fra il buono e il cattivo ladrone.”

Per escludere il Proudhon dagli scodellatori della zuppa comunista, basterebbe la critica alla formula, che divenne poi il credo Krapotkintano “da ciascuno secondo le sue forze ed a ciascuno secondo i suoi bisogni,” formula che egli chiama una casuistica avvocatesca, poiché non vede chi potrà fare la valutazione delle capacità e chi sarà giudice dei bisogni. (Cfr. L'Idée générale de la Révolution au dix-neuviéme siécle. - Garnier, Paris, 1851, p. 108).

L'errore in cui è caduto il Mosca è interessante, poiché dimostra come sia sfuggito a molti studiosi della storia del socialismo questa verità: che il collettivismo dell'Internazionale ebbe un valore essenzialmente critico. Fatto che è stato negato anche da alcuni anarchici, come da L. Fabbri, che sostiene essere l'anarchismo "tradizionalmente e storicamente socialista" in quanto ha per base della sua dottrina economica "la sostituzione della proprietà socializzata alla proprietà individuale" (cfr. Lettere ad un socialista; Pensiero - 1910, n. 14, p. 213).

Basta una rapida scorsa alla storia della Iª Internazionale per smentire questa affermazione. L'Internazionale nacque in Francia, nell'atmosfera ideologica del mutualismo proudhoniano, e, come dice Marx in una sua lettera relativa al Congresso di Ginevra (1866), non aveva, nel suo primo tempo, espressa alcuna idea collettivista né comunista. Il rapporto Longuet nel Congresso di Losanna (1867) dimostra che Proudhon dominava ancora. E tale dominio si riscontra nel Congresso di Bruxelles (1868), in cui, tuttavia, si affacciò l'idea collettivista, ma in modo generico e limitata alla proprietà fondiaria e alle vie di comunicazione. La collettivizzazione affermata nel IV Congresso, quello di Basilea (1869), fu limitata al suolo. L'influenza praudhoniana, dunque, è parallela all'anti-comunismo e all'anti-collettivismo.

Al collettivismo aderirono Bakounine e seguaci; ma vedendo in esso più che un progetto di forma economica, una formula di negazione della proprietà capitalista. Bakounine era entusiasta di Proudhon. Egli (Cfr. Oeuvres, I, 13-26-29) esalta il liberismo nord-americano [non erano ancora sorti i trusts], e dice “La libertà dell'industria e del commercio è certamente una gran cosa, ed è una delle basi essenziali della futura alleanza internazionale fra tutti i popoli del mondo.” E ancora: “I paesi d'Europa ove il commercio e l'industria godono comparativamente della più grande libertà, hanno raggiunto il più alto grado di sviluppo.” L'entusiasmo per il liberismo non gli impedisce di riconoscere che fino a quando esisteranno i governi accentrati e il lavoro sarà servo del capitale “la libertà economica non sarà direttamente vantaggiosa che alla borghesia.” In quel direttamente vi è una seconda riserva. Infatti egli vedeva nella libertà economica una molla di azione per la classe borghese, che egli afferma essere ingiusto considerare estranea al lavoro (Cfr. Oeuvres, I, pp. 30 e segg.), e non poteva non riconoscere la funzione storica del capitalismo attivo. Interessanti sono anche i motivi delle simpatie del B. per il liberalismo nord-americano, poiché ci spiegano che cosa egli intendesse per proprietà.

Il B. fa presente che il sistema liberista nord-americano “attira ogni anno centinaia di migliaia di coloni energici, industriosi ed intelligenti,” e non si impressiona punto all'idea che costoro divengano, o tentino divenire, proprietari.

Anzi, si compiace che vi siano coloni che emigrano nel Far West e vi dissodino la terra, dopo essersela appropriata, e nota che “la presenza di terre libere e la possibilità per l'operaio di diventare proprietario, mantiene i salari ad una notevole altezza ed assicura l'indipendenza del lavoratore” (Cfr. Oeuvres, I, 29).

La concezione del valore energetico della proprietà, frutto del proprio lavoro, è la nota fondamentale della ideologia economica del B. e dei suoi più diretti seguaci. Tra questi Adhémar Schwitzguébel, che nei suoi scritti (Cfr. Quelques écrits, a cura di J. Guillaume, Stock, Paris, pagina 40 e seguenti) sostiene che l'espropriazione rivoluzionaria deve tendere a concedere ad ogni produttore il capitale necessario a far valere il suo lavoro. La dimostrazione storica dell'anti-comunismo bakunista sta nel fatto che le tendenze comuniste nell'Internazionale italiana trionfarono nel 1867, quando l'attività del Bakounine era quasi interamente sospesa (Cfr. Introd. del Guillaume alle Oeuvres de B., p. XX) e nel fatto che in Spagna, ove l'Alleanza aveva piantato profonde radici, perdura una corrente anarchica collettivista in senso bakunista.

Se il collettivismo dell'Internazionale fosse stato compreso dal Mazzini non ci sarebbe stato il fenomeno della sua critica anti-comunista. Così criticava il Mazzini: “L'Internazionale è la negazione di ogni proprietà individuale, cioè di ogni stimolo alla produzione... Chi lavora e produce, ha diritto ai frutti del suo lavoro: in ciò risiede il diritto di proprietà... Bisogna tendere alla creazione d'un ordine di cose in cui la proprietà non possa più diventare un monopolio, e non provenga nel futuro che dal lavoro.” Saverio Friscia, nella “Risposta di un internazionalista a Mazzini,” (pubblicata sopra il giornale bakunista L'Eguaglianza di Girgenti, e ripubblicata dal Guillaume, che la trova superba e l'approva toto corde [Cfr. Oeavres de B., vol. VI, pp, 137-140]) rispondeva: “Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale.” Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l'assioma “chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?”. E dopo aver analizzato le critiche del Mazzini, esclama: “Ma non è questo del puro socialismo? Che cosa volevano Leroux e Proudhon, Marx e Bakunin, se non che la proprietà sia il frutto del lavoro? E il principio che ogni uomo deve essere retribuito in proporzione alle sue opere, non risponde forse a quell'ineguaglianza di attitudini e di forze ove il socialismo vede la base dell'eguaglianza e della solidarietà umana?.”

In questa risposta del Friscia è netta l'opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell'eguaglianza relativa (economica); ed in fine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere.
Non pensi, caro Gobetti, che potrebbe essere utile, su R. L., una serie di studi sul liberalismo economico nel socialismo? Credo colmerebbe una grande lacuna e leverebbe di mezzo molti e vecchi equivoci. Credo ne risulterebbe, fra le tante cose interessanti, questa verità storica: essere stati gli anarchici, in seno all'Internazionale, i liberali del socialismo. Storicamente, cioè nella loro funzione di critica e di opposizione al comunismo autoritario e centralizzatore, lo sono tutt'ora.

Tuo C. Berneri.

4 commenti:

Massy Biagio ha detto...

piace questo Blog. Vogliamo scambiarci i links? Ti va? Io ho una sezione apposita. Sto parlando del Mio Blog ARCANA INTELLEGO

Blog su blogger di Tescaro ha detto...

Ciao Domenico sono passato di fretta per salutarti ho memorizzato il post xchè lo voglio leggere con calma ed attenzione. Buona giornata.

Domenico Letizia ha detto...

si grazie per il saluto tiziano, ricambio..... buona lettura.

Anonimo ha detto...

Anarchico ma sempre pieni di dubbi (io), e vorrei chiedere a chi forse saprà rispondere questa domanda:
L'integrazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale come la vedete? come è possiblie che un geometra di tanto in tanto si metta fare il muratore e il muratore il geometra? - è percorribile questa strada anche e solo in un'ipotesi riformistica e pedagocica?
(A)

"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )