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giovedì 5 febbraio 2009

anarChomsky



di Carlo Luigi Lagomarsino

Per quanto alcuni saggi sembrino rimbalzare con troppa disinvoltura da una raccolta all’altra, leggo sempre con piacere i libri di Noam Chomsky,. Mettere insieme diversi testi variamente dedicati all’anarchismo è stata comunque una bella idea (della AK Press, e adesso, in traduzione italiana, della Tropea: Anarchismo. Contro i modelli culturali imposti). Ciò che impressiona di Chomsky è la sempre ragguardevole documentazione. Tuttavia, l’ampiezza dei riferimenti e la menzione dei testi sembra a volte chiudere la discussione anziché aprirla o, perlomeno, rischia di ridurla a una valutazione di attendibilità e pertinenza circa le affermazioni che dovrebbero asseverare. L’impressione è che nei testi radicali Chomsky preferisca far parlare detta documentazione (e se ben ricordo, da qualche parte l’ha pure confermato) poco curandosi, se non per quel tanto che essa suggerisce, dei nodi teorici implicati, la qual cosa comporta un’attenzione ai fatti reali che via via va a confondersi coi fatti testuali. Se c’è (o ci possa generalmente essere) una stretta coincidenza fra i due non vuol però dire che si sia fatta chiarezza o che la logica di questi fatti, rigorosa quanto si vuole, tenda di per sé a far comprendere in modo più preciso le scelte di Chomsky. Così, nel momento in cui rende sensibile la sua inclinazione alla “democrazia diretta” (di sindacalisti rivoluzionari, marxisti consigliaristi e anarchici) non ci viene detto in che maniera concretamente la concepisca, quanto sia efficace e desiderabile, quanto sia – e come – condivisa dai vari soggetti che compongono i gruppi ai quali si riferisce.
Non viene ben chiarito prima di tutto se essa debba ritenersi fondata su basi territoriali o di mestiere, elemento decisivo e carico di conseguenze pratiche. Maggior luce sulla questione, per esempio, migliorerebbe la lettura della parte dedicata agli avvenimenti della guerra civile spagnola di quello che è il saggio più noto, lungo e interessante (nonostante quanto si va rimarcando) di questa raccolta: Obiettività e cultura liberale. Chomsky non sciorina, come invece ci si potrebbe aspettare tanto pare ormai scontata, la solita verbosità sui crimini stalinisti. Ritiene viceversa, finché ci si limiti ad analizzare come obiettivo la difesa della Repubblica, la politica stalinista una politica realista. In un certo qual modo, così facendo, Chomsky rigetta “anarchicamente” ogni difesa dello Stato per volgere la sua attenzione alla rivoluzione sociale quale unica vera difesa del campo repubblicano, per una “repubblica” d’altro segno ovviamente. In questo senso un ben diverso realismo lo ritrova nelle posizioni di Camillo Berneri. Anche codesta indicazione non porta in ogni caso all’auspicato “chiarimento”, cosicché il suo collocarsi dalla parte delle collettivizzazioni messe in atto da marxisti del POUM e anarchici (ma trascura le analisi di “Bilan”) ha l’aria di minimizzare gli eventi drammatici di quei giorni (e il diffuso clima di omicidio) nella riduzione a una semplice scelta di campo della quale poco o nulla si viene in realtà a sapere. Forse è un suo modo per far pensare.

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"Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l'hanno fatto diventare un termine orrendo... In realta' vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità" ( Fabrizio De André )